Carne y arena è un allestimento plurisensoriale ideato dal premio Oscar Alejandro Gonzàlez Iñárritu, regista di 21 grammi, Babel, Birdman e Revenan solo per citarne alcuni, attualmente visibile presso la Fondazione Prada di Milano. I biglietti vengono venduti via web con ingresso definito sia nel giorno che nell’orario, in quanto si accede all’esperienza uno per volta. La chiamano esperienza e di un’esperienza effettivamente si tratta: un viaggio virtuale che mi ha portato infine a toccare con più consapevolezza la quotidianità.
L’installazione tratta il tema dell’esodo dai paesi latinoamericani verso gli Stati Uniti, che interessa ogni anno circa 250 milioni di persone. Per una decina di minuti, muniti di visore di realtà virtuale, cuffie audio, a piedi nudi sulla sabbia rocciosa in un ambiente in cui potersi muovere liberamente, si può vivere ciò che viene definito cinema dipinto: un modo per diventare protagonisti del racconto non solo entrando a far parte della scena, ma potendo agire da performer scegliendone il personale punto di vista.
Il momento rappresentato tratta l’incontro di alcuni poliziotti di frontiera con un gruppo di migranti nel bel mezzo del deserto. Voci, volti, elicotteri, fucili, cespugli, cani e, fra loro, lo spettatore. Voltarsi e trovarsi faccia a faccia con persone spaventate, arrabbiate, l’atmosfera del nulla arido, i rumori e poter camminare assieme alla scena sono un’esperienza decisamente nuova e intensa. Ma se l’intento del progetto era quello di porre il pubblico all’interno del racconto abbattendo i confini della bidimensionalità, personalmente credo di non essermi mai sentita così distante. Leggere, guardare un film o ascoltare un racconto mi permettono, attraverso l’empatia, l’immaginazione e le sensazioni evocate, di entrare in contatto con la storia. Esserci invece sbattuta nel mezzo, presente fisicamente anche se in una realtà effimera, mi ha fatto sentire completamente estranea ai fatti.
Loro erano accanto a me, vicini, ma inutile fingere di capire, di provare gli stessi turbamenti, di lasciarsi trasportare sulle ali di un racconto che non potrà mai essere il nostro. Mi trovavo nel deserto insieme a loro ma i miei piedi non erano ricoperti di piaghe e vesciche per aver camminato giorni nel deserto. Nel mio paese non rischio tutti giorni la vita, non mi minacciano costantemente, non ho parenti uccisi da gang, non sono la dodicesima figlia di famiglie che lavorano nei campi per ottenere in cambio un pugno di riso, non ho figli che mi sono stati inviati a casa fatti a pezzettini perché qualcuno ha ritenuto gli avessi fatto un torto, non ho passato settimane in container stipati di gente, o in celle frigorifere, o subito violenze fisiche dagli stessi sfruttatori per cui dovrò lavorare ancora 20 anni per far sì che non se la prendano con i miei cari. In pratica non ho alle spalle la stessa miseria che spinge queste persone a intraprendere quel viaggio e nel cuore la medesima speranza di un futuro che possa essere anche solo un poco migliore del niente da cui sono scappati.
Più mi guardavo attorno più mi chiedevo cosa ci facessi lì. Più sentivo sotto i piedi quella sabbia portata da chissà quale cava più mi sentivo fuori luogo. Più sentivo l’aria soffiata dai ventilatori più mi sembrava tutto così ridicolo e falso, come d’altronde era. È stato allora però che ho sentito emergere prepotentemente un’altra storia, ed è quella in cui sono io la protagonista, quella che mi sono costruita e che cerco di affrontare ogni giorno con i mezzi di cui dispongo.
Bizzarro come partecipare a un’esperienza virtuale abbia reso più manifesto il presente, e prestargli la giusta attenzione non dovrebbe essere solo un dovere ma soprattutto un gesto di rispetto verso coloro che il deserto lo devono affrontare tutti i giorni, qualsiasi esso sia. E quando il grande regista deciderà di far apparire sul mio display la scritta off vorrei poter dire di aver vissuto anche io un'esperienza plurisensoriale, che molto probabilmente non vincerà alcun premio Oscar ma quantomeno sarà stata reale, vera, sentita, intensa, toccata, respirata, consumata ma, soprattutto, mia.
Carne y arena, fino al 15 gennaio 2018 presso la Fondazione Prada di Milano, prenotazione obbligatoria.
Foto Emmanuel Lubezki