St.Moritz

Quello che non so, sul gioco del polo sulla neve

Quello che non so è una rubrica che tengo su Radio 3 Network una volta al mese: pillole di un paio di minuti su ciò che, appunto, non so. In quella andata in onda martedì 27 febbraio ho parlato del gioco del polo sulla neve dove, sembra, esistano regole e risultati ma che insomma, non conoscendole ho potuto leggerci altro ;-).

Testo del video:

Quello che non so, è cosa aspettarmi dal gioco del polo sulla neve. Arrivo a bordo campo, vedo otto giocatori, cavalli, mazze, arbitri e infine lei, una palla arancione che si muove su un suolo bianco come la pagina di un libro, e in quel momento capisco: quella palla non si sta solo muovendo, sta scrivendo. Al suo passaggio appaiono infatti parole, che diventano poi frasi e infine vita, perché è questo il tema del racconto.

Ad esempio, mentre due cavalli si affiancano, tesi, pronti allo scatto, a quel correre già iniziato stando fermi e che magari non accadrà mai, ecco apparire la storia di un desiderio, di pulsioni e pulsazioni all’unisono, di morsi strappati ai sensi, masticati e infine lasciati colare sul mento, il collo, fin sul petto.

Oppure dietro una fuga verso fondo campo sono apparse parole come ossigeno, bagno sotto una gelida cascata, meta appena raggiunta e vittoria a lungo sofferta; o ancora urlo a un cielo in tempesta e tuffo, tuffo ci sta, ma di quelli che apri le braccia e ti lasci cadere di schiena, nel mare.

E nel contropiede? Cosa dire di ciò che è scaturito dalla straordinaria opportunità del tutto, dalla volontà unita alla tenacia, dall’afferrare, stringere e mantenere? Aveva molto a che fare con il notare qualcuno a cui vuoi bene sorridere, e sentirne la risata.

Contatti come frasi, colpi come accenti, falli come punteggiature capaci di cambiare il significato di un periodo, gol che hanno definito paragrafi e il ritmo del racconto. 

Insomma, quello che non so e che continuo a non sapere è quali ruoli abbiano rivestito gli otto giocatori, quali regole abbiano dovuto rispettare e chi abbia vinto, ma di una cosa sono certa: nel cuore di ogni spettatore presente alla manifestazione, quel giorno si è materializzato un ricordo: per ognuno diverso nella trama, nei protagonisti e nelle vicissitudini ma non nel finale, che per tutti si è trattato come sempre di punto, ma stavolta era di color arancione.

Erode il Grande al Festival Culturale Origen

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Arrivare alle 17 al passo dello Julier offre un'anteprima allo spettacolo straordinaria grazie al panorama autunnale, dorato come la torre. L’atmosfera respirata all’interno del teatro prima dell’evento è rilassata, conviviale e intima, tipica degli ambienti in cui ogni dettaglio è curato compresa la giusta quantità di posti a sedere. Alle 18 i bicchieri di vino vengono posati e il pubblico prende posto attorno all’atrio del piano terra.

Il palco scende lento dal soffitto al ritmo di un tempo che capiremo mai passato. Le catene scorrono nel meccanismo portando il cielo in terra come fosse una maledizione; il vuoto lasciato al centro è ora colmato dal protagonista degli eventi: il potere. 

Erode siede sul trono la cui contesa è causa del processo voluto. Gli accusati sono le mogli Doris e Mariamne con i relativi figli avuti da esse Antipatro ed Aristobulo. La sorella Salomè è con lui a ricordargli che il dominio non accetta misericordia, nemmeno se al banco degli imputati siede la famiglia.

Il re della Giudea processa senza vergogna, come senza vergogna guarda negli occhi ogni singola persona del pubblico camminando a bordo palco. E ha ragione: chi siamo noi per giudicarlo? Il giudizio non è forse la prima forma di malignità? La risposta arriva dal sole del tramonto che, incurante degli accadimenti, entra dalle finestre illuminando Erode come chiunque altro, a ricordarci che tutti siamo simili nella luce come nell’ombra.

E così le ombre dell’anima prendono forma creando danze fra accuse e difese, mosse al ritmo di paure, severità, seduzioni, rifiuti e castighi. Vengono calpestate umiltà e scatenate forze che soltanto l’innocenza riesce a brandire, in un ultimo atto di sfida con cui le madri proveranno a difendere i propri figli. Ma il mantello indossato da Erode, intessuto dalle loro stesse ingenuità e crudeltà, lo proteggerà infine dall’unica possibilità che gli imputati avranno di sopravvivere: provare amore.

Una volta eseguita la sentenza il re torna a sedersi sul trono, stanco; i morti non hanno bisogno di essere visti dall’alto, i morti stanno a terra perché è lì che la ferocia li ha voluti anche se a prenderseli sarà il cielo. Il palco può ora iniziare la sua lenta ascesa per consegnare all’eternità il gesto dell’uomo.

Il vuoto lasciato al centro del teatro viene però presto occupato dal pieno di Erode; è un pieno denso, cercato, accettato e compiuto. Il re della Giudea passa ancora una volta a guardare negli occhi le persone presenti prima di uscire nella notte. 

Gli applausi iniziano a scorrere come le catene che hanno sollevato fatti ma non colpe. In seguito il pubblico si alza per uscire e raggiungere la stessa porta varcata da Erode, libero di agire là fuori ieri come oggi, capace di esistere nel giorno come nella notte, ma soprattutto di prendere forma anche in un piccolo vuoto, sicuramente presente in ognuno di noi. 

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Herodes è l’ultima pièce presentata dal Festival Culturale Origen presso il teatro al passo dello Julier, per la regia di Giovanni Netzer; fino al 20 ottobre 2017. www.origen.ch

Credits Foto Spettacolo: BenjaminHofer

 

Bianca e Fernando all'Opera di St. Moritz

Vi è mai capitato di sentirvi risucchiare all’interno di un flusso sanguigno mentre state osservando uno spettacolo? A me sì, ieri, durante la prova generale dell’Opera di Bellini “Bianca e Fernando”, svoltasi presso la deliziosa sala spettacoli in stile neo-barocco dell’Hotel Reine Victoria di St. Moritz. 

Il palco non è in fondo alla sala, è tutt’attorno. Le persone non sono solo da una parte, sono ovunque. E così anche gli interpreti, che un secondo ti ritrovi dietro la schiena, un altro seduto accanto e un altro ancora laggiù in fondo, sulla scala. E tu che fai? Giri la testa di qui, la volti di là, guardi un po’ in su e infine FLUP, ci finisci dentro, in quel corpo intendo.

Così passi in un istante dalle corde vocali di Fernando, il tenore, ad attraversare le braccia della direttrice d’orchesta Olga Pavlu che mamma mia, svolazzano e accarezzano e inveiscono nell’aria come uno stormo d’uccelli mentre si prepara per volare altrove, al caldo. Ed è un viaggio che attraversa stomaco, gambe, piedi, schiena e spalle di soprani, bassi, tenori, mezzisoprani, orchestra eccetera e tu sei lì, nel mezzo, a fluire di qua e di là finché al caldo ci arrivi per davvero. Ed è tanto. Intensissimo. Ti domandi dove potresti essere visto che attorno non vedi nulla però dopo un po' lo senti: batte. E batte forte. Quel forte delle persone che non si arrendono, che resistono nell’ingiustizia, che sanno soffrire e amare; è un battere di quelli giusti.

Sei nel cuore del Duca. È il cuore di Carlo ma alla fine capisci essere anche il tuo. Ti ritrovi quindi nel posto da cui ora potresti tornare al mondo ma in cui non esistono maniglie o serrature da girare; per uscire occorre solo fare una cosa: ascoltare, e sentire, sentire e ascoltare… ascoltare… e sentire… sentire…. e ascoltare… “Al contento aprite il cor. Oggi al mondo Ciel mostrò. Che virtù perir non può, che virtù perir non può, che virtù perir non può, perir non può, perir non puòòòòòòòòò.”

Fine. Applausi. Anche te. Che ce l’hai fatta. Ad aprire quella porta. E a uscire.

Snow Polo World Cup Sankt Moritz 2017

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In Engadina sto imparando i cavalli. Non che non ne abbia mai visti ma qui, essendo ovunque, ho il tempo per osservarli. Forza, eleganza, vitalità e controllo, ma soprattutto contorno. Sì perché dei cavalli se ne possono seguire i bordi: dei muscoli, del movimento, del sudore e del pelo, per non parlare di quelli dello sguardo. A volte una cosa sembra prendere vita solo nel momento in cui un cavallo la vede. L’ultima in ordine temporale è stata una pallina arancione in mezzo alla neve, apparsa durante lo Snow Polo World Cup di St. Moritz.

Lago ghiacciato, neve, sole, cavalli e gente in abbondanza. Decido di non capire per lasciarmi impressionare e così è stato. Per comodità e divertimento ho abbinato le squadre in campo a una caratteristica. E così Cartier è diventato il Tempo, Champagne Perrier-Jouët il Piacere, Maserati la Potenza e Badrutt’s Palace Hotel la Tradizione.

Dopo tre giorni di sfide il risultato ha visto trionfare su tutti il Tempo, seguito dalla Tradizione, dal Piacere e infine la Potenza. In una lettura più filosofica si potrebbe quindi dire che riappropriarsi del valore del tempo permetterebbe alla tradizione di restituire ad ognuno la propria identità, per far sì che abbandonarsi al piacere venga fatto con la giusta consapevolezza, concedendo ad anima e corpo il permesso di scoprire il proprio potere personale oltre i confini prestabiliti.

E niente, e pensare che c’è chi lo chiama semplicemente sport ;-).