Il mio Nepal, scritto per emotionrit.it

Ci sono posti che diventano rifugi in cui andare quando si ha bisogno di tirarsi un po' su, di riposare, di riscoprirsi, di capire o semplicemente di respirare quell'aria lì. Uno di questi per me è il Nepal. Ringrazio Giovy Malfiori di emotionrit.it per avermi permesso di tornarci con la mente e col cuore, e con tutto il sottile che c'è in me. Leggi l'intervista pubblicata su emotionrit.it

Dialogo fra il Mare e la Montagna

Se la montagna mi aiuta a trovare risposte, il mare è capace di pormi le giuste domande...e così, tra un caffè e una fetta di pane imburrata, è nato questo piccolo dialogo fra il mare e la montagna:

- Ciao, chi sei? 
- La Montagna
- Perché sei così alta?
- Per toccare il cielo
- E com'è?
- Blu, come te
- Sono quindi il cielo?
- Sì, lo si capisce guardandoti l'orizzonte
- Ma l'orizzonte è così lontano...
- Per questo ti hanno dato le onde, per portare il cielo sulla spiaggia
- Ma questa cosa gli uomini la sanno?
- Forse no, ma la intuiscono
- E quando mi toccano cosa accade?
- Che diventano loro il tuo orizzonte, questa volta così vicino.

Il giorno in cui te ne vai

Arriva sempre, inevitabilmente, tutti gli anni. È il giorno in cui te ne vai, anche se il tuo non è proprio un andarsene ma piuttosto un terminare un percorso assieme, quasi come fosse un’esperienza prestabilita dal destino a cui, crudele, ha applicato fin dal principio una scadenza. Il nostro è stato amore a prima vista. Non so se il merito sia stato dell’abito che indossavi, in un abbinamento di colori improponibile ma di sicuro effetto, oppure semplicemente della chimica, di quella cosa se si instaura fra due individui impossibile da ignorare ma che è dato solo vivere.

Non l’avevo mai fatto, ma ti portai subito a casa mia. Dentro me suonavano tutti i campanelli d’allarme: “non farlo”, “te ne pentirai”, “è il punto di non ritorno”, ma un ritorno già non esisteva più, perché la mia nuova direzione eri tu. Spogliarti è stato come scoprire una terra inesplorata, sia di me che di te. Il tuo odore mi ha catturata e incatenata a una sensazione che non volevo più abbandonare, che mi costringeva a bramarti con una passione primordiale legata al senso di sopravvivenza, come il bisogno di respirare. Accarezzarti, scoprire il tuo profilo, i tuoi confini fisici e sensuali è stato come riscoprire i miei: uniti eravamo un territorio unico, accessibile solo a noi due, che percorrevo con le labbra fino a quando finalmente vi entravi. Il tuo sapore è una scossa ai sensi, un uscire e rientrare dalla follia e dall’incanto, in un continuo avvinghiarsi capace di plasmare la perfezione, su cui erano scritti i nostri nomi. Con la lingua percorrevo la tua essenza fino a quando la sentivo abbandonarsi, sciogliersi, riempirmi la bocca e l’animo in un appagamento sensoriale che di razionale non aveva nulla, se non forse il semplice essere lì, in quel momento, assieme, e vivere.

Ma come accade tutti gli anni arriva il momento in cui te ne andrai, in cui resterò con in mano il tuo vestito, che non userai più. Oggi è quel giorno e sono un po’ triste, ma come sempre ti lascerò fare perché è giusto sia così. Ti guarderò ancora un’ultima volta prima di adagiarti in bocca e, quando la danza dei sensi avrà di nuovo inizio, penserò: “ciao ultimo ovetto di Pasqua, ci vediamo l’anno prossimo”… e grazie!

Colazione da George (racconto trash-pulp)

Sentivo il rumore del traffico aumentare al di là della finestra. I pendolari del lunedì cominciavano il loro perverso rituale, incatenandosi uno all’altro fino a formare la coda di un serpente a sonagli pronto a scagliarsi contro la prossima preda: l’impiegato bisognoso. Dovevano essere all’incirca le 6 e mezza; il chiarore del mattino entrava dalle finestre quel tanto da riuscire a stagliare l’ombra di Artù lungo le pareti di camera mia. Artù è un cane di razza golden retriever, in quel momento già seduto in attesa di essere portato fuori: “Va bene, adesso mi alzo”, gli dissi. Un click al pulsante On della macchina del caffè, un passaggio veloce in bagno, ed eccomi in cucina a scegliere la capsula Nespresso più idonea all’umore: “Oggi vado di… Linizio lungo”, et voilà.

Posiziono la tazza e faccio partire l’erogazione, quando sento rimbombare sulla parete un oggetto scagliato dal vicino per farmi capire di averlo disturbato. Artù raddrizza le orecchie: “Anche tu non ne puoi più vero?”, e abbaia in tutta risposta. Ok: decido che se Linizio deve essere, che Lafine sia. Apro il cassetto delle capsule già adoperate, afferro due Limited Edition, le svuoto, do forma all’alluminio e lo ricarico con polvere nera, ma questa volta non si tratta di caffè. Afferro la doppietta dall’armadio, inserisco le cartucce appena create, apro la porta e, senza nemmeno suonare il campanello, mi creo l’“avanti” in casa sua: “boom”. Ciò che resta della maniglia rotola in corridoio. Entro. Il volto spaventato del rompiballe appare sulla soglia della camera: “Ciao tesoro, questa mattina ti ho portato la colazione a letto, ecco il tuo caffè”, gli dico, prima di piantargli un colpo dritto in mezzo agli occhi. Il cervello schizza sulla parete come la schiuma di un cappuccino: “Ho sempre odiato il latte nel caffè”, dico, mentre Artù, che adora le pozze, corre a rotolarsi felice in tutto quel sangue: “Dai che andiamo”, lo esorto.

Esco dall’appartamento e sul pianerottolo vedo la Signora Tarantini in vestaglia e pantofole guardarmi sbigottita: “Salve Signora, desidera anche lei un petit dejeuner?”, le dico allungando la doppietta nella sua direzione come fosse un vassoio da bar. Interpreto il rumore della sua porta sbattuta come un no, al che rientro nel mio appartamento, scambio il fucile con il guinzaglio e torno da Artù, rimasto fuori: “Guarda come ti sei conciato”, lo rimprovero rassegnata. Lui di tutta risposta si scrolla, dipingendo le pareti del pianerottolo delle scale di un rosso carminio simile al Decaffeinato intenso. Scendo le scale e mi fermo dalla custode per informarla che al numero quattro ci sono due capsule da gettare nell’apposito centro di raccolta rifiuti. Lei annuisce, afferra spazzola e secchiello e si dirige al piano superiore: “Cosa non si è disposti a fare per un Nespresso…”, la sento borbottare sulle scale. Mentre porto Artù al fiume noto che sulla mano mi è rimasta una goccia di sangue. La assaggio, giusto per sentirne il sapore: “È dolciastra, bleah”, penso schifata, prima di aggiungere ad alta voce: “D’altronde lo diceva sempre anche mia nonna: per avere la vita dolce bisogna bere il caffè amaro”… in fondo, what else?

La Porziuncola

È li, in Umbria, poco lontano da Assisi, piccola piccola, da 400 anni protetta dalle intemperie, da 800 venerata da seguaci e pellegrini…. Cosa? È lei, la Porziuncola! Si tratta di una chiesina minuscola, appena 28 mq di costruzione romanica, costruita nel IV secolo d.C., divenuta in seguito proprietà dei Benedettini e donata a sua volta al conosciutissimo Francesco d’Assisi (già, quello che come il Dr. Dolittle parlava con gli animali), dove fondò egli stesso l’ordine dei frati Minori, delle Clarisse, e dove alla fine vi morì.

Signori, che siate credenti, cristiani, mussulmani, atei o zoroastri non importa, quella microscopica costruzione ha il fascino della perfezione, la luce dell’eternità e la dolcezza della creazione, tutte proprietà universali, non di uso esclusivo di una sola religione o fede.
Ma la particolarità che la rende mirabilmente fantastica è che, nel diciassettesimo secolo, per accogliere degnamente i pellegrini in arrivo, vi fu costruita attorno la basilica di Santa Maria degli Angeli… già, avete capito bene, la Porziuncola è una chiesetta dentro una chiesa, aprite il portone e a metà della navata principale trovate un’altra chiesa, una sorta di Matrioska culturale (da culto, non da cultura), un calendario dell’avvento con la finestrella che si apre su un’altra che bisogna nuovamente aprire per scoprire cosa c’è dietro e dietro c’è sempre il Natale, in pratica un doppio Kinder Sorpresa.

In principio la Porziuncola si trovava in mezzo ad un bosco, circondata da querce, uccellini, scoiattoli e angeli vari; un po’ come le nostre chiesine di montagna, che giri l’angolo e te le ritrovi lì in mezzo al cammino, così ingenue e umili, così alla portata di chiunque ne voglia semplicemente ammirare la bellezza, così vicine a quel qualcosa di così immortale…. Poi, senza che nessuno ne abbia chiesto il parere, si è ritrovata inglobata in un colosso monumentale che poco riporta il mutare delle stagioni, che poco le lascia scorgere del mondo esterno.

Come si sarà sentita la prima notte che, al calar della sera, invece di tante "buona notte" portate dal vento, ha sentito solo il rumore della serratura del portone che si chiudeva? Come avrà reagito al ritrovarsi circondata solo da uomini anziché da tutti gli esseri del creato? E le saranno piaciuti i canti liturgici come sostituzione al canto degli uccellini? 
Ma avrà avuto la tentazione di fuggire da questa prigione dorata? E se avesse voluto anche lei, come Alice, mangiare un pasticcino per diventare grande? Che abbia sorseggiato dalla bottiglia "bevimi" e non sia più riuscita a prendere la chiave dal tavolo per aprire quel pesantissimo portone? Oppure, semplicemente, avrà tirato un gran sospiro di sollievo, così almeno non avrebbe dovuto preoccuparsi più di nulla? Le cede un po’ un cornicione qui, e glielo mettono a posto immediatamente, si apre una crepetta là, ed arrivano squadroni di restauratori, un pellegrino vuole incidere il suo nome nella pala d’altare, e subito l’arrestano; in pratica, Signori, chi rifiuterebbe un servizio del genere?

Niente più cacche d’uccelli, niente più piedi nella palta dopo un temporale, scomparse totalmente tutte quelle foglie portate dal vento che le facevano solo prudere il naso e che bisognava sempre scopare fuori, bloccato completamente il rilassamento strutturale dato dal passare del tempo, arrestata in massa la pipì sulle pareti perimetrali o il pericolo di vandalismi, senza dimenticare le piacevoli paspatelle umane che riceve tutti i giorni, da parte di coloro che la vogliono solo toccare (sperando di ricevere un tocco in cambio)! Sarà per questo, cara la mia Porziuncola, il motivo per cui, malgrado ti abbiano sradicato dal tuo luogo di nascita, hai un’espressione sempre così soddisfatta e solare, così lieta?
Ora che ci penso, non è giusto dire che sei stata sradicata dal tuo luogo di nascita perché sei sempre rimasta lì, sei solo stata inglobata in un’altra chiesa, anzi, sei, in fin dei conti, il motivo della nascita stessa della basilica che ti circonda e protegge.

Credo di aver finalmente capito cosa ti contraddistingue da tutte le altre: sei una sorta di rivincita dei piccoli, dei meno fortunati, dei Davide contro i Golia, sei la piccola Porziuncola contro la grande Chiesa.
Per questo sei così speciale, ti sei ritrovata tuo malgrado improvvisamente adulta senza essere cresciuta, improvvisamente spettatrice del bene e del male umano, non più solo della natura. In realtà sei grande, enorme, immensa, solo che agli occhi della gente irriverente sembri piccolina, minuscola, quasi una nana… non so se hai deciso di rimanere in quella posizione perché nemmeno tu, come De André, conosci la vera statura di Dio, o resti così proprio perché la conosci veramente, ma fatto sta che ai miei occhi non sei più semplicemente la piccola Porziuncola imprigionata, ma sei diventata la grande Porziuncola inginocchiata!

Storia di un canarino che è passato di qua

Un canarino, ieri, è passato di qui. Pioveva. Il mondo appariva verde, di quel verde intenso proprio della natura quando si disseta. Poi, improvvisamente, un puntino giallo ha sottolineato la sua presenza, semplicemente mostrandosi. Lo stupore c‘era, la meraviglia pure, e l’entusiasmo infantile ha esordito con “Un canarinooooo!”, mentre con il dito continuavo a seguire il suo volteggiare, quasi potessi dirigerne la traiettoria. Chissà da dove arrivava, se appena dietro l’angolo o da molto lontano, oppure direttamente dal sole o da un limone, visto che ne portava lo stesso colore. L’avevano liberato? Oppure era in fuga? 


Certo è che, a vederlo così abituato all’uomo e ignaro dei pericoli, c’era da chiedersi se sarebbe vissuto ancora a lungo… ma a dire la verità, guardandolo bene, sembrava persino impacciato, dubbioso, goffo, forse anche un po’ ridicolo. 
Ma la libertà, in sé, non dovrebbe apparire sempre fiera e dignitosa? Che a volte possa essere fuori luogo? Ma fuori da cosa: da una gabbia? E questa gabbia, dove comincia e finisce? Non è che questo canarino, in fin dei conti, è uscito da un prigionia per entrare in un’altra, molto più grande e stimolante, ma pur sempre in una costrizione? Avrà conquistato la libertà fisica, per diventare schiavo della sua inesperienza? Abbandonando le sue certezze, avrà incontrato i propri dubbi? 


Dicono che la libertà di un individuo termini quando comincia quella di un altro: ma come si fa a sapere se si sfrutta completamente il proprio personale campo d’azione, oppure se si occupano solamente pochi centimetri quadrati, magari gli stessi da cui possono fuggire i canarini? E se quell’uccellino fossi stata io, quale realtà avrei scelto? Quella in cui avrei potuto cantare a squarciagola tutti i giorni, oppure quella in cui avrei buttato là qualche cip cip così, giusto per noia? Avrei scelto di rimanere accanto allo sguardo affettuoso del mio padrone, oppure sarei andata incontro a quello di un gatto e di una poiana?


Ma, pensandoci bene, non è forse a questo punto che solitamente cominciano le favole, le storie da raccontare ai bambini? “C’era una volta un canarino che divenne amico di un micio e di un rapace…”. Ecco, forse è questo il vero senso della libertà: non tanto il riuscire a valicare i confini imposti o personali, ma il credere che da essa possano nascere delle favole… come vedere volare un canarino e una poiana assieme, in un giorno di pioggia.… e vissero per sempre, felici e contenti

Ricetta del mio lunedì

Ricetta: prendete un giorno qualsiasi, aggiungetegli 5'784'368 gocce di pioggia, 12'201'669 steli d’erba, 45 pali di legno, 603 metri di filo di ferro, 81 metri quadri di pozzanghere, 9 filari di vigna, 3 depositi di legna, 2'000'570 sassi, un pezzettino di plastica e 8 pannelli numerati. Amalgamate il tutto, lasciate lievitare all’aria aperta fino a ottenere un impasto leggero e vellutato.

Prima di infornare dategli la forma che preferite. Quando nell’aria sentirete aleggiare profumo di terra, cose buone, brivido dell’incertezza, voglia di iniziare, occhi aperti e musica jazz, ecco, solo allora l’impasto sarà da ritenersi pronto. Aprire, afferrare e servire: et voilà un croccante croissant al gusto del mio lunedì.

Oggi è un giorno viola!

Comunicazione di servizio: oggi è un giorno viola! Mi sono svegliata presto per studiare, ed eccola lì. Ho svolto un esame, e ancora. Ho fatto la spesa, pure in quell’occasione. Son tornata a casa e, guardando fuori dalla finestra, l’ho finalmente riconosciuta: quella sensazione che mi son ritrovata appiccicata addosso dall’alba null’altro è se non un colore: il viola! 


Che significa? Roba di chakra, elevazioni spirituali, talari vescovili, superstizioni televisive alla Fabio Fazio, l’elemento fuoco, il maschile, zaffiri, ametiste, profumo di lavanda, # 8F00FF, 700 Terahertz o più semplicemente un mirtillo? No, nulla di tutto ciò: è un libro. Ma non un libro libro, un libro vita. Sono quei libri che prima o poi ritornano, di quelli che si aprono sempre su una pagina che parla di te, e di quello che stai passando. A leggerli così uno magari non ci fa caso, ma se li si sfoglia (anche se sarebbe più appropriato dire che li si consulta..) in determinati momenti, c’è da rimanerci secchi. Cioè: tu sei lì fra quelle pagine, riportato in nero su bianco, alzi gli occhi e vedi te che ti stai leggendo e insomma… è un po’ come accade a Bastiano ne La storia infinita, solo che qui da salvare non c’è Fantasia (o forse sì, o magari anche…). 


La prima volta è caduto da solo dalla libreria in montagna proprio mentre passavo di lì e paff: è stato come uno schiaffo. La seconda una doccia fredda. La terza, un balsamo. La quarta, una conferma. E così via… finché ho cominciato a usarlo su commissione, cioè quando la giornata mi affida quel compito. Come oggi. Va bene, vediamo allora cosa mi si vuol dire: e appare “Sul San Gottardo”, dove Hermann Hesse racconta un’escursione sulla neve con relativa visione di un’aquila. Cosa accadrà? E trovo “Escursione nell’aria”, un viaggio a bordo di uno Zeppelin. Dunque la terra e il cielo, la leggerezza del volare, l’incontro, il coraggio, il viaggio e la visione del mondo da una prospettiva diversa: e ora ditemi voi… se non è proprio un giorno viola questo, io non so.

Una cartolina per te

Settimana scorsa, mentre ero incastrata tra alcuni pensieri e ridondavo nel solito vagare, mi sono imbattuta in una cartolina temporale. Sono quelle immagini immortalate tanto tempo fa da qualcuno, inviate in seguito in giro per il mondo intero, libere.

Credo siano state create dal Supremo Fotografo del Grande Architetto, il quale è riuscito a cogliere l’istante esatto in cui un’idea ha preso forma… un click subito dopo essere stata creata, prima ancora di aver potuto esalare il primo respiro… un click in cui è rimasto impresso tutto il potenziale della futura esistenza, un click carico di aspettative. Oppure, più semplicemente, questo Supremo Sconosciuto si è presentato a Dio con un’immagine in mano e gli ha detto "ecco, la voglio così", e così Dio ha dovuto fare.

Le cartoline temporali sono molto abili a camuffarsi, ma ad un occhio attento e ad un animo aperto non possono sfuggire. Giri un angolo ed eccola lì, nel suo massimo splendore etereo, con quel suo modo unico di essere così perfetta, così incontaminata, così intatta. Altra particolarità delle cartoline temporali è che tutti le vedono nello stesso modo. Essendo nate prima di ogni altra cosa se non se stesse, risultano libere da qualsiasi giudizio, gusto personale o parere: semplicemente esistono, e per questo emozionano, sempre!

Come quando fai una curva e lo vedi lì, davanti a te: il mare.
Oppure esci da una galleria ed ecco: la prima neve.
O ti volti improvvisamente et voilà: un campo di girasoli.
Chiudi gli occhi e la senti: una cornamusa nel bosco.
Inspiri profondamente e lo riconosci: l’odore di pino cembro.
Alzi gli occhi al cielo e la scorgi: una libellula.
Immergi la mano in una sorgente e la capisci: l’effervescenza.
Vedi il volto di un anziano e la leggi: la vita.
Attraversi un prato e ti sorprendi: il circo.
Prendo in mano una penna e lo scrivo: il tuo nome.
Giro la cartolina e la invio: il vento.

Non è vero, non serve alcun Supremo Fotografo per immortalare una cartolina temporale, ognuno la può creare da sé; basta pensarla, stamparla nella mente, stringerla tra le mani e inviarla all’infinito… e vedrete che prima o poi, qualcuno, girando l’angolo, la vedrà

Ritorno in fonderia

E poi accade che una sera torni lì, in quel posto dove nemmeno ricordi più perché hai smesso di andarci. Riapri la porta e tutto è rimasto uguale: lo stesso odore, la stessa luce, la medesima voglia di provare e il solito timore di non riuscirci... eppure, tutti e ogni volta, riescono sempre. Ma soprattutto loro, quei volti che rivedendo ti accorgi di quanto ti sono mancati, e di quanto ti è mancato tornare a risederti attorno a quel tavolo, passando le ore a raccontarsi la vita.

Il Flying Film Festival, per #faigirarelacultura

Ci sono film in grado di proiettarti altrove, in luoghi lontani, in storie vicine, attraverso viaggi temporali o modificando l’attorno. E se tutto questo avvenisse proprio mentre in un viaggio ci sei davvero, dove tutto sotto dite si modifica in ogni istante, e ciò che ti era vicino diventa improvvisamente lontano? Sarebbe l’apoteosi dell’evocazione cinematografica, la proiezione estrema elevata alla seconda, una risonanza di emozioni in grado di invadere il viaggiatore in una continua eco di storie e immagini raccontate.

Ebbene, tutto questo è divenuto realtà. Ci ha pensato l’Associazione culturale Le Système D, organizzando il primo festival di cortometraggi ad alta quota. Durante i mesi di marzo e aprile sarà infatti possibile partecipare al Flyinf Film Festival sui voli Swiss a lunga distanza (A330 e A340).

Anche per Francesca Scalisi, di Le Système D, l’attenzione dello spettatore cambia stando in cielo: «Personalmente volare in aereo mi ha sempre dato la sensazione di essere in una bolla fuori dal tempo e dallo spazio, nel ventre materno primordiale e accogliente, in una terra di mezzo tra il finito e l’infinito – ci ha confidato -. In questa particolare dimensione, chissà, forse le emozioni e le sensazioni che un film trasmette penetrano nell’animo senza più alcun filtro».

Nove cortometraggi che, passo dopo passo, avvicineranno i viaggiatori a destinazione; nove cortometraggi che sarà possibile votare sul sito flying-filmfestival.com, permettendo al più nominato di accaparrarsi il premio del pubblico.

Dunque cosa aspettate? Se volete vivere un concentrato di emozioni non vi resta che prenotare un volo Swiss, mettervi comodi e allacciare le cinture di sicurezza; lasciatevi poi trasportare verso i mondi lontani visibili sia dentro che fuori lo schermo, fino al raggiungimento di una nuova meta, dentro o fuori che sia.

Recensione pubblicata su Timmagazine.

Amplesso invernale tormentoso

Diciamolo: non è che si possa proprio definire tormenta, quella di oggi più che altro mi è sembrata… un amplesso! Ebbene sì, dite quello che volete ma non eravate presenti, al cui confronto youporn è sembrata una verginella. Cioè, questo è arrivato, l’ha coperta, l’ha sbattuta, l’ha fatta girare di qua e di là, l’ha spianata, l’ha strappata, l’ha schiacciata e l’ha messa sopra; tutte le candele in quel momento si sono spente, le persone presenti hanno chiuso gli occhi e i puritani si sono fatti il segno della croce.

E lei che ha fatto? Si è smollata, si è rilassata ma è rimasta presente, e per fortuna, altrimenti anche io sarei finita a gambe all’aria. Poi si è lamentata, o meglio ha gemuto, al che lui è tornato prepotente, l’ha scompigliata a dovere ancora una volta prima di avviarsi all’atto finale: un colpo di qua, un colpo di là, un altro che “caspita Artù viene qui che questo ci vuol spazzare via” (e a giusta ragione direi, spettatori di tanta passione probabilmente non ne volevano nemmeno loro...).

Allora ci siamo accucciati e abbiamo aspettato che tutto passasse, noi e tutti gli addetti ai lavori che in quel momento dovevano liberare il lago. Poi così, senza alcun preavviso, ecco un bel “paff” riecheggiare nella valle intera. Ma davvero, giuro, si è sentito! A quel punto lui si è alzato e se ne è andato, lasciando lei al suolo, attonita e imbiancata. Accade sempre così, ogni volta che il cielo si abbassa e raggiunge la terra è una tormenta infuocata, e sono sicura che se la neve non coprisse tutto quanto qualche succhiotto sul terreno apparirebbe qua e là.

Ormai l’avrete capito: anche stamani mi sono svegliata e fuori dalla finestra imperversava una tormenta di neve, solo che oggi, anziché “Oh cazzo”, ho pensato “va be’, beati loro”, e sono uscita.

Sempre caro mi fu, quell'ermo colle...

È accaduto così, senza preavviso o alcuna pianificazione, tipo quelle cose che accadono solo nei film, a volte. Ti svegli, guardi fuori dalla finestra e una bufera di neve ti saluta augurandoti buona domenica: “oh cazzo”, pensi, invece “in vacanza tutto è bello”, scrivi. E così indossi l’equipaggiamento da “una notte all’addiaccio non potrà uccidermi”, carichi la tasca di bocconcini per il cane (anche se per trattenerlo, con la selvaggina che brulica in questi boschi, dovrei piuttosto girare con un cinghiale allo spiedo sulla schiena), e via… qualche cosa accadrà. E accade, sempre. 


Incontri qualcuno: “Grüezi”, dici, chi era? Boh, non si vede da qui a lì, magari era l’omino che indica gli esercizi del percorso vita al punto 6, quello dei piegamenti. “Alègra”, ti risponde, dunque non era lui (probabilmente). E avanzi. “Artù”, urli… nulla… e già ti vedi chiamare i soccorsi, spiegargli che sì non dovevi liberarlo, ma come fai, dai… non c’era in giro nessuno, a parte un branco di camosci, il raduno delle lepri invernali e una reunion delle volpi bisbetiche. “Artù”, ancora nulla, finché qualche cosa dietro te attira l’attenzione, ed è lui, che nella neve fresca fatica, allora preferisce seguire i tuoi passi; proprio il giusto atteggiamento da seguire per accaparrarsi mezzo sacchetto di bocconcini: un po’ per la fiducia e un po’ perché non dovrai fare la figura della padrona isterica con i soccorritori.


E, in questa pace ritrovata, ti accorgi di essere arrivata in un punto che non riconosci. Sarà stata colpa della nebbia, della neve, del tempo o del destino, non so, ma in questo posto che poteva essere ovunque o in nessun luogo ho cominciato a recitarla: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”… e così via… nel silenzio, in compagnia dei miei passi, di un Artù stranamente accanto, e di quel nulla rassicurante che solo la montagna sa consegnarti “e il naufragar m’è dolce in questo mare”. Giusto, un nulla che può anche sapere di infinito e la montagna di mare ma in fondo, a ben pensarci, che differenza c’è?

La mia Verità su Daniele Finzi Pasca per #faigirarelacultura

Daniele Finzi Pasca è un grande chef! Lo dico da tempo: Daniele è un cuoco sopraffino, uno chef di prim’ordine, uno che con le stelle Michelin guadagnate avrebbe potuto decorare un abete grande come quelli che ci sono nelle piazze più famose, che al solo guardarli sorridi e sogni. Per i suoi spettacoli lui impasta immagini, aggiunge suoni speziati, amalgama storie come fossero burro fuso e inserisce qua e là qualche scaglia di realtà fondente… poi lascia riposare l’impasto in un luogo caldo, intimo, che si attesta solitamente attorno ai 37 gradi centigradi e, a lievitazione ultimata: “booooom”… ti scoppia dentro un pasticcino di ricordi che al confronto la madeleine proustina sembra un tic tac. Cioè, lui riesce con uno spettacolo a proiettarti in altri, nel passato, nei tuoi ricordi e persino in quelli del signore seduto di fronte a te, che se non sei un po’ forte di cuore rischi di rimanerci secco.

E così è accaduto anche durante lo spettacolo La Verità, in scena a Milano le scorse settimane: vedi un soffione gigante e ripensi a un vestito che se Ruggero ma anche quello della tua bisnonna, appare un cappello luccicante e ti ritrovi a giocare a pallone sotto un temporale ballando il charleston, entra la testa di un cavallo e senti il rumore della nave rompighiaccio solcare mari che profumano di pino cembro, senti una musica fatta di nebbia e scompari e riappari a ritmo stroboscopico, assisti alla danza di un acrobata in salita verso il cielo e sul pavimento appare l’ombra di Icaro, di un armadio e un tappeto ai cui angoli crescono le fragole… poi ci sono le ombre, gli angeli, i tamburi, i canti, i corpi, le composizioni, gli wow, i colori che nemmeno Marc Chagall, le orecchie che si moltiplicano e te le ritrovi anche sotto i piedi e la pelle che si ionizza e ti sembra di depurare persino l’ambiente… ma soprattutto loro, gli occhi, che vorresti grandi il doppio perché tutta quella roba lì in due cosini grandi come una noce non è possibile ci stia.

Eppure lui ce la fa, sempre, lui riesce sempre a farci stare tutto, anzi di più, perché ogni volta riesce persino a farci piovere dentro… poi lo so, resto imbambolata per giorni a domandarmi come diavolo faccia Daniele Finzi Pasca ad essere ogni volta così straordinariamente galattico, capace di creare continui fermoimmagine estetico-poetici che se non appartengono a un piano infinito quelli io non so. E il giorno dopo, per ritrovare un contatto con la realtà, sono uscita di casa, ho alzato gli occhi al cielo per controllare cosa fosse in arrivo e ho sbadigliato, ma alla fine non ce l’ho fatta… ho azzardato un passo di cancan, ho fatto un salto, urlato sottovoce e sputato dalla bocca un animale, che sapeva di menta, e di papà.

Recensione pubblicata su Timmagazine.