faigirarelacultura

Progetto su tela: Antenati con le radici

Ho scelto di tramutare in opera artistica questo progetto perché credo molto nella trasformazione dell’ordinario in meraviglia: un’alchimia necessaria affinché la magia possa tornare a circolare nel quotidiano, rendendo ogni giorno non solo un fatto scontato ma soprattutto un’esperienza unica che val sempre la pena vivere.

Gli alberi. Grandi, possenti, vivi, detentori di segreti e veri e propri orologi del tempo che passa, poi ritorna, e infine se ne va. Il Teatro dei Fauni di Locarno ha deciso di tramutare in esperienza collettiva il tesoro racchiuso in questi esseri attraverso il progetto “Antenati con le radici”. Durante gli incontri, gratuiti e aperti a tutti, gli interessati si ritrovano ai piedi di un albero centenario della città per sentirne raccontare la storia, la provenienza, aneddoti, segreti e proprietà, il tutto accompagnato da un’azione scenica di teatro, danza e/o musica. Ai presenti viene inoltre consegnato un dossier contenente quanto udito, in modo che il prezioso sapere possa venir condiviso con altri: piccoli semi di rispetto e curiosità pronti a germogliare nelle coscienze altrui. 

Da questa idea è nato il dipinto, in acrilico dim. cm ca. 40x55, su cui ho inoltre riportato un testo di Hermann Hessedel 1919 tratto da “Alberi”, che mi sembrava coerente con il messaggio dato dalla performance:

“Gli alberi sono santuari. Chi sa parlare con loro, chi li sa ascoltare, conosce la verità. Essi non predicano dottrine e precetti, predicano, incuranti del singolo, la legge primigenia della vita. Gli alberi hanno pensieri duraturi, di lungo respiro, tranquilli, come hanno una vita più lunga della nostra. Sono più saggi di noi finché non li ascoltiamo. Ma quando abbiamo imparato ad ascoltare gli alberi, allora proprio la brevità, la rapidità e la precipitazione infantile dei nostri pensieri acquistano una letizia incomparabile. Chi ha imparato ad ascoltare gli alberi, non desidera più essere un albero. Non desidera essere altro che quello che è. Questa è la patria. Questa è la felicità”.

Il presente lavoro è stato concepito come premio per l’edizione di #faigirarelacultura del 2016. Per partecipare all’edizione del 2017 clicca qui: potrai vincere, oltre a numerosissime opportunità e premi, una personale elaborazione fotografica del tuo progetto.

Nella fotografia la consegna del premio a Santuzza Oberholzer del Teatro dei Fauni di Locarno, attraverso la persona di Roberta Nicolò.

Varekai, Cirque du Soleil Milano per #faigirarelacultura

Degli spettacoli è bello anche l’arrivo, l’approccio, l’avvicinamento. Fiumane di gente che compaiono da ogni dove per lasciarsi colpire e meravigliare da ciò che accadrà. Un po’ come andare con coscienza verso il bello, concedendoselo. Come stavolta, dove per arrivare al Forum di Assago è stato sufficiente seguire il brulicare dell’emozione, ed eccoci là. Credo che a volte il prezzo del biglietto sia ripagato anche solo dall’essere avvolti da così tante persone attente, ascoltarne il respiro, i gridi di entusiasmo e l’applaudire all’unisono.

Varekai. In lingua gitana significa ovunque, e come sempre il Cirque du soleil è stato in grado di spargere con maestria quella cosa lì che chiamo stupore ma che non si ferma solo a quello, perché è uno stupore capace di andare avanti per giorni, per anni. Come ritrovarsi un domani ad abbinare un giallo a un verde e blu e ripensare alle strane creature che animavano il palco diventato fondo del mare; o sentire un passaggio di musica nomade e ritrovarsi là, fra corpi volanti e palloni illuminati; oppure ancora da un bagliore avere la necessità di allungare un braccio perché lei ha fatto così, con una grazia che forse solo gli angeli potrebbero. E infatti la storia di questo spettacolo parla proprio di un angelo caduto in un mondo straordinario e mai più ripartito perché ha incontrato l’amore, il sentimento che quella sera hanno respirato un po’ tutti ovunque, un po’ tutti varekai.

Recensione pubblicata su timmagazine

Another great year for fishing, Studio Foce Lugano per #faigirarelacultura

Lo spettacolo andato in scena lunedì 3 ottobre allo Studio Foce di Lugano parla di un viaggio, il viaggio che ognuno di noi inesorabilmente intraprende nell’arco della vita verso, o lontano, da sé. È una ricerca, un tentativo, un modo per cercare di rimanere fedeli a se stessi in una società frenetica, improntata sull’apparire, sul consumo, sulla menzogna e sul giudizio costante. E Tom Struyf lo fa attraverso le tensioni.

Sul palco tensioni corporee fanno a volte da sfondo altre da supporto a testimonianze rilasciate da personaggi pubblici: parole asettiche in cui a volte si riesce a intravvedere la luce del dubbio, lieve, nascosta seppur presente.

Nel suo continuo vagare nell’incertezza, il protagonista della pièce arriverà fino all’altro capo del mondo per capire che la soluzione per sopravvivere la si trova nelle piccole cose: nell’aiuto spontaneo ricevuto da un estraneo, in un bambino, nella risata di un’amica, ma soprattutto nella necessità di ritrovare la fede verso il genere umano. Infatti Tom, grazie all’aiuto di Nelle Hens, attraverso prestazioni fisiche combinate ci ricorda di non aver paura, che a volte è necessario avvicinarsi all’altro e sapersi fidare, ma tanto, per cercare di non cadere.

FIT Festival Internazionale del Teatro 2016 – Another great year for fishing – tensioni corporee

 Recensione pubblicata su Timmagazine

Miraculi – Tèâtre Senza #faigirarelacultura

Miraculi è uno spettacolo andato in scena il 15 luglio al Teatro Sociale di Bellinzona del gruppo Thèâtre Senza, una compagnia internazionale basata a Parigi e formata da ex allievi di Jaques Lecoq. Si parla di Lampedusa: la porta d’Europa dove pescatori, turisti, migranti, sommozzatori, bambini, militari e cani condividono la stessa realtà. La lingua parlata è un po’ il francese, un po’ l’italiano, un po’ la nostra e un po’ quella degli altri, dove non conta cosa vien detto ma ciò che arriva di là dal palco, in mezzo al pubblico, e quello arriva sempre, a differenza dei migranti. Per raccontare ciò gli attori si avvalgono della forza scenica per antonomasia: l’intenzione, dove tutto diventa possibile.

Un cubo nero ora è nave, ora scoglio, ora Madonna, ora base militare, ora poltrona, ora obitorio. Una maglietta trasforma il migrante in militare, in venditrice, in Maria o in Salvatore. Un cono di luce diventa una soffocante stiva, un’altra il fondo del mare. Uno squillo, un telefono, e due parole che fanno già una storia. Una mano, uno sguardo oltre la rete, una foto, una conchiglia trovata e chi, in questo luogo, cerca di vivere anche se sta per morire, e non sto parlando solo di chi arriva ma anche di chi in quel luogo ci è nato.

Poi ci sono coloro che qui approdano non per posizione geografica o origine ma per vacanza: i turisti. E chi invece per lavoro: i militari. Ciò che propone la compagnia è un mix di immagini e realtà talmente assurde da trasformare “La Porta d’Europa” in un buco attraverso cui è possibile guardare per vedere contemporaneamente diversi mondi paralleli: così diversi e così distanti ma per un istante uniti, a volte intrecciati. Una pièce sicuramente interessante ricca di vita, morte e persone, condita con i miracoli in cui si continua a credere, malgrado purtroppo non possano accadere.

(recensione pubblicata su Timmagazine). 

The Floating Piers: l'opera giallegiante #faigirarelacultura

È una cosa che bisogna fare. Bisogna, oddio, effettivamente bisogna è un parolone, ma lo consiglio vivamente. The Floating Piers è l’ultima installazione di Christo e Jean-Claude: tre chilometri di pontili galleggianti ricoperti di giallo cangiante che si snodano da Sulzano a Montisola e tutt’attorno all’isola di San Paolo, sul lago d’Iseo. E in più c’è la gente. Tanta gente. Moltissima gente. E per fortuna! Cioè: una cosa così deve essere vista dalla maggior quantità di persone possibile. È meravigliosa questa massa di individui accalcati sulle passerelle senza magari saperne bene il perché; ma ci sono, e ci stanno, e lo fanno: guardano e vedono.

Guardano come un luogo che non è più un posto possa diventare un sogno concreto su cui camminare. Quindi ci stanno, vanno e lo fanno: ascoltano. Tendono tutti i canali percettivi e lasciano che la realtà cancelli la sensazione di inganno, perché è proprio questo ciò che sembra di primo acchito: non vero, impossibile. Poi però ci metti su un piede e senti l’ondeggiare del lago, metti su l’altro e ti fermi perché non puoi fare altrimenti se non sentirti lì, parte di quella cosa. E le scarpe si scalzano da sé: diventa un bisogno. Ad ogni passo una carezza fra la pianta del piede e la pelle del serpente giallo; ogni piega una ruga e tu un neo posizionato con cura in questo volto intrigante su cui infine ti sdrai, e te lo ritrovi ovunque.

È un ovunque composto dal cielo che rimanda il riflesso di ciò che vede, dall’alto; sotto il ritmo del lago disegna la forza e solidità della struttura fissata al fondo e la quantità d’acqua posta nel mezzo; da un lato la terraferma allunga le dita desiderosa di intrecciarsi alle tue, mentre dall’altra la tenerezza dell’abbraccio colorato che avvolge l’isola di San Paolo entra e va dritta lì, nel cuore. E allora chiudi gli occhi e le chiacchiere della gente attorno si trasformano in quel sussurro delle cose vissute raccontate la sera, poco prima del tramonto, quando la luce diventa oro e l’aria fresca inizia a sfiorare accaldate pelli. Poi ti rialzi e continui a camminare in quella estasi capace di far riaffiorare i ricordi, portando a galla quel modo che si aveva da bambini di guardare al mondo con stupore come se ogni cosa fosse nuova anche se nuova lo era davvero… ed ecco, ora per un istante vedi, e ogni cosa torna magicamente ad essere nuova, anche se nuova ormai non lo è più.

L’installazione The Floating Piers di Christo e Jean-Claude sarà visitabile fino al 3 luglio 2016.

(recensione pubblicata su Timmagazine)

La visione dell'attrezzo, per #faigirarelacultura

Domenica, sole primaverile, voglia di stimoli e nulla che richiedesse un’immediata presenza lavorativa: la condizione ideale per una passeggiata in Centro con visita alla mostra di Markus Raetz e Aleksandr Rodčenko presso il LAC di Lugano. Colazione, doccia, vestiti e via, ma quando arrivo alla porta decido di tornare indietro e di gettare nella borsa un blocco di carta, un paio di forbici e un pennarello. Tutto lì. Un nulla. E invece… Avete in mente lo sguardo dei ragazzi discoli quando decidono di fare comunella per combinarne una qualcuna? Ecco, uguale: durante il tragitto Pennarello Forbici e Carta devono aver confabulato e raggiunto una sorta di legame di sangue, della serie “Adesso le facciamo vedere noi a quella lì”. E così è stato.

È stato sufficiente uscire dall’autosilo e questi tre hanno preso il sopravvento. Penso “Oh ma che bel panorama” e bzzzz, bzzzz, bzzzz, appare un volto sotto un albero. Mi dirigo in Piazza della Riforma dove stanno allestendo videocamere e riflettori per le interviste post-elezioni del pomeriggio e bzzzz, bzzzz, bzzzz, appare una donnina tutta curve che desidera farsi immortalare. Alzo gli occhi al cielo e bzzz bzzzz bzzzz appare un omino seduto sul tetto con i piedi a penzoloni, e così via, per tutto il tempo. Ho cercato più volte di dire a quei tre di lasciarmi godere in santa pace l’aria fresca primaverile e invece nulla, li sentivo agitarsi dentro la borsa e non mi restava altro da fare che tirarli fuori e farli sfogare un po’. E non è che avessi pianificato nulla, ho solo pensato “prendili su, che si sa mai”.

Già. Si sa mai. Ma basta davvero così poco? E se avessi messo in borsa mestolo e frullino? Avrei cercato di cucinare la città? Credo di sì. Avrei mescolato tetti e frullato il lago a spuma di neve per cucinare un panorama dal gusto irresistibile e dal profumo croccante.

Scalpello e martello? Oh semplice, avrei dato una nuova forma ai profili montani e a qualche nuvola. Con auscultatore e siringa? Forse avrei cercato di ascoltare il ritmo del respiro della città per capire dove iniettare la medicina, foss’anche una dose massiccia di magia.

Con pettine e tinta? Una Lugano chatouche l’avete mai vista? Con zappa e rastrello? Un colpo qui e un colpo là più una bella grattatina alla schiena, sai che goduria! Con filo interdentale e fluoro? Ma sai che sorriso smagliante avremmo ridato alle vie del centro, anche tra le più piccole e strette?

E così via. E questa cosa qui non centra nulla con la storia di guardare la vita da un’angolazione diversa. Ecco. La chiamerò “la visione dell’attrezzo”, quella cosa per cui non serve cambiare posizione ma è sufficiente affrontarla con utensili differenti. E pensate che bello se di serenità, ottimismo, ironia e curiosità ne esistesse la versione da mettere in borsa la mattina prima di uscire di casa e con quei mezzi affrontare la giornata… ma questa è un’altra storia, che va ben oltre il semplice volervi raccontare la mostra di Markus Raetz al LAC, cosa che in verità ho appena fatto ma, ovviamente, utilizzando altri mezzi. (Fino al 1° maggio 2016).

 (pubblicato su Timmagazine).

Quando a parlare è il Silenzio, il pezzo per #faigirarelacultura

Ho partecipato a quattro giorni di Silentium: un ritiro spirituale che più di un ritiro si è trattato di un’espansione. Di quelle grandi. Inglobanti. Di quei “Woom” e ti ritrovi tutto dentro, ma andiamo con ordine.

Sono arrivata sul posto all’ora di cena, occasione in cui si possono conoscere i compagni di avventura in refettorio, tutti seduti dallo stesso lato, in fila, uno a fianco all’altro. Per una volta non ero la più giovane ma anzi, devo dire che mi aspettavo un’età madia più elevata invece ci siamo attestati attorno ai 50: dai 35 ai 60, circa. La prima sera era ancora permesso parlare ma si capiva che non era già più necessario. Poche parole, pochi dettagli: eravamo solo in due alla nostra prima esperienza. E poi a nanna, ognuno nella sua accogliente cella.

Diana. Colazione. Sono entrata in refettorio con la curiosità di scoprire questo taciturno modo di comunicare e mi sono ritrovata davanti sette sorrisi: che meraviglia, già solo per questo sarebbe utile prescrivere il silenzio! Al termine ognuno per la sua strada. Si può fare ciò che si vuole fino all’ora della prima lettura: ce ne sono due, una mattutina e una pomeridiana. Decido di andare nei boschi attorno al convento, luoghi in cui ho praticamente passato gli altri giorni restanti. Sono luoghi magici, e quando dico magici intendo proprio di quelle cose che affascinano, che emanano effetti straordinari in grado di luccichinizzare il tutto. Poi qui la bellezza è in quella giusta misura che ti fa sentire protetto: ti avvolge, la indossi, la puoi stendere sopra te per dormirci sotto in beatitudine e farci pure dei bei sogni, e il tutto restando sempre sveglio.

Mi faccio quindi una bella passeggiata e sulla via del ritorno incontro una Signora “Oh che bello incrociare qualcuno con cui fare quattro chiacchiere”. Ok, ho dovuto mettere per un attimo il silenzio in pausa ma non credo il supremo se la sia presa a male, anzi. A parte questa bolla di parole (per altro poche, da parte mia) per il resto ho vissuto davvero qualche giorno senza profferir verbo, cosa che ha permesso alla comunicazione di esplodere nei suoi più sottili significati.

Come quando sei in mezzo alla natura e la senti manifestarsi in tutta la sua magnificenza e straordinarietà: impiegavo ore per fare pochi metri da tanto ogni cosa riusciva ad attirarela mia attenzione, quasi avesse la necessità assoluta di essere vista o forse ero io che inconsciamente ne bramavo l’esistenza. Un giorno di sole, uno di pioggia, uno con la neve e infine la nebbia: ma quanti “wow” sarò riuscita a pronunciare in quei giorni? A manciate, come coriandoli di stupore gettati all’aria in questa carnascialesca baldoria dei sensi.

Oppure come quando percepisci la differenza dello stare in silenzio da soli o in compagnia. Diciamo che il significato della parola rispetto qui assume una forma diversa, più densa, permanente.

O ancora come quando i pensieri non ti affollano più la mente ma a poco a poco, di loro iniziativa, si mettono seduti lasciando libero il campo all’accadere. Il Silenzio come presenza a cui è bastato presentarsi per imporsi in modo non autoritario ma autorevole: un leader nato dal carisma strabiliante, e forse in questo caso anche un po’ divino.

E il tempo? Che dire di quella sensazione di tornare finalmente ad essere in sintonia con il trascorrere del tempo? Ti volti e lui c’è, è lì, ti guarda dritto negli occhi e ti lancia uno di quegli sguardi che solitamente aleggiano al centro di un gruppo musicale, di quelli utili a capire quando si è tutti pronti ed è ora di iniziare a suonare. Ma lo sapete che il tempo quando scorre giusto emette musica? Giuro! Come mettere un disco alla velocità con cui è stato impresso, condizione che permette persino di ballarci assieme. E sulle note di un incantevole ballo sono giunta alla fine dei quattro giorni, a cui ne avrei aggiunti volentieri ancora un paio giusto così, nella speranza di capire ancora un po’ di più, forse.

E se quando arrivi ti saluti sorridendo quando te ne vai lo fa abbracciando, non solo le persone ma anche tutto ciò che c’è attorno, e sono di quegli abbracci da togliere il fiato, di quelli che anche a poter utilizzare tutte le parole del mondo non sapresti descrivere. Credo sia semplicemente l’abbraccio del Silenzio: una cosa che sa un po’ di montagna e di luce, di fiume e di vita, di tutte le vite.

(Silentium – Convento Santa Maria dei Frati Cappuccini – Bigorio)

(pubblicato su Timmagazine

Quei film che iniziano alla fine #faigirarelacultura

Quei film che iniziano alla fine. Di quelle cose che piacciono a me. Di quelle che vado per curiosità e me ne torno a casa con un bastimento carico (carico) di emozioni e idee, a cui so necessitare almeno una settimana di decantazione per tirarci fuori qualche cosa di utile, foss’anche un pensiero. Dunque: il Museo Vela di Ligornetto quest’anno ha deciso di tenere aperto anche durante la stagione invernale e, per movimentare mostre e luogo, organizza cose. Ma cose belle, intriganti, e questa volta persino temporalmente rivoluzionarie.

Mi siedo nella sala tra statue di gesso e sguardi vivi; la gente affluisce. Partono i discorsi di ringraziamento, qualche spiegazione giusto per offrire un contesto e via: le luci si spengono, la visione del lungolago a inizio ‘900 appare e con lui l’accompagnamento al pianoforte dal vivo. E buuuuummmmm: sono stata travolta da una ventata come se qualcuno avesse tolto all’improvviso il parabrezza di un’automobile in viaggio. Ho fatto un gran respiro dallo spavento ma poi, quando ho capito che si trattava solo di ossigeno in quantità, mi sono rilassata sullo schienale e se ci fosse stata una portiera vi avrei persino appoggiato sopra il gomito, come nei viaggi in cabriolet.

E infatti è così: assistere a un film muto è un viaggio fuori dalla ragione per approdare ai sensi, una cosa che ti fa venir voglia di allungare la mano per sentirne la consistenza: dei sensi intendo, di tutti e cinque (sei). Non ci sono parole, solo immagini e musica. Nulla da capire ma solo sentire, quel sentire che parte dalla punta dei capelli, arriva ai piedi e poi si unisce a quello di tutti gli altri presenti in sala. E a me queste cose sono in grado di generare due lacrimoni grandi così, che naturalmente ho versato. Ma non alla fine dello spettacolo come solitamente accade, quando dalla commozione vorrei entrare fisicamente in ciò che ho davanti (attore, regista, musicista, eccetera), arrampicarmici dentro fino ad arrivargli al timpano e sussurrargli grazie. No, stavolta mi son scesi subito, all’inizio, perché ho capito che i film muti sono spettacoli all’incontrario!

Si inizia piangendo, poi ci si emoziona, ci si appassiona, ci si incuriosisce e infine (che poi sarebbe l’inizio) ci si mette lì, in attesa che tutto accada. E la cosa incredibile è che qualche cosa alla fine inizia ancora per davvero! Cioè quando tutto è terminato sali in automobile, accendi, parti verso casa e dopo un po’ ti ritrovi improvvisamente su una cabriolet, dove se allunghi una mano li senti, i sensi, e se ti concentri un po’ odi pure il rumore del ciak, momento in cui non ti resta null’altro da fare che pronunciare un nuovo: si gira… e Azione sia.

pubblicato su Timmagazine

Una madeleine proustiana che sa di pentola #faigirarelacultura

Nei giorni scorsi mi sono piazzata a casa dei miei genitori giusto così, per far finta di essere in vacanza, anche se un po’ lo sono stata veramente. Non è il luogo in cui sono cresciuta e non vi ho mai abitato, per cui niente “ah quel posto mi ricorda quella cosa lì” o intraprendere quei viaggi nel tempo che alla fine non sai mai dove ti portino veramente. Mi attendeva solo roba tranquilla: libri, tv, cane, lago, champagne (visto il periodo) e grissini (visto il periodo 2). Punto. Finita lì. Fino a quando non mi è venuta fame davvero e ho aperto l’armadio delle pentole. Ricordate i camini di Harry Potter? Ecco, qui non mi è servita la polvere volante, saltarci dentro e pronunciare alcuna destinazione: in un attimo sono stata proiettata nella cucina di legno verde di trent’anni fa, davanti al cassetto ad angolo che le conteneva. Una vetrina girevole di trecentosessanta gradi: una meraviglia! Un’esposizione di preziosi che se Truman Capote avesse visto, Colazione da Tiffany l’avrebbe ambientato lì.

C’era quella bassa e larga con il coperchio pesante e pomello d’oro (zecchino, ci scommetto) usata per le cotture lente, quelle che permettevano la modificazione cristallina di spezzatini e brasati da cui estrarre piatti da incastonare. Quella della stessa serie ma più stretta e alta, dove tonno e piselli o fleischkase e cipolle subivano la metamorfosi del monocristallino per offrire pietanze color rubino. Poi c’era quella del puré, media dal manico nero, quella del risotto, alta e larga con manici e coperchio in acciaio che ovunque la afferravi ti scottavi, poi quella delle uova sode, alta e piccolina con un pizzico d’aceto per fermarne l’apertura un po’ come si fa con lo smalto sui collant smagliati quando non si ha il ricambio. Che dire poi di quella altissima con i manici neri del mezzo chilo di pasta? Ah che gioia vederla apparire sul bancone! E di quella stretta e lunga con il doppiofondo a buchi usata solo un paio di volte? Vi prese vita un super gnoccone che una volta tagliato portava in superficie filoni d’argento a cui noi, felici esploratori, restava solo il compito di estrarre e immagazzinare.

Tutto questo comunque nulla poteva in confronto a lei, al cui cospetto persino il diamante blu della corona bavarese si sarebbe inchinato: la teglia rossa! Dicono che lo stesso Pininfarina si ispirò a lei per progettare la Ferrari. Acciaio puro smaltato rosso all’esterno, bianchi gli interni. Aerodinamica spaziale per permettere il perfetto circolo dell’aria nel forno, attraverso le cui nubi di fragranza sembra qualcuno vi abbia visto l’immagine di Cristo (all’ultima cena, ovvio). L’eleganza e maestria con cui riusciva a parcheggiare anche nei laterali più stretti, fra un centrotavola e l’altro, ha sempre ammutolito i presenti, silenzio per altro necessario ad accogliere degnamente il pilota eccelso al volante di tale bolide. Mormorii scesi, motore spento e attenzione alle stelle, ora la portiera poteva aprirsi: tacco a spillo bianco, gamba nuda fino alla coscia. Ne scendeva sempre lei, l’unica in grado di valorizzare appieno la tecnologia offerta dalla teglia. Fiera e maliziosa sui suoi tacchi da dieci centimetri (almeno) lanciava uno sguardo a destra, uno a sinistra, in attesa che i vapori fuoriusciti dalla metropolitana ne riuscissero ad alzare il vaporoso vestito: “oooohhh”, ed ecco la Marilyn Monroe della mia infanzia che si adagiava delicatamente nel piatto. Sono sicura che se Andy Warhol avesse assaggiato questo piatto gli avrebbe dedicato una serie di serigrafie; l’icona indiscussa degli anni ‘70: le lasagne di mamma.

Pubblicato su Timmagazine

Un abbraccio galattico per #faigirarelacultura

Abbraccio galattico.L’abbraccio è un gesto. Punto. Andare oltre nella spiegazione significherebbe ridurne il valore oppure iniziare a scrivere oggi e finire il giorno in cui si esala l’ultimo respiro, e non basterebbe comunque. Poi dai ammettiamolo, non ci sono proprio gli attrezzi idonei per parlarne; intendo le parole stesse. Mancano. Non esistono. Si dovrebbe inventarle. È che a crearne di nuove servirebbe un’altra vita intera per esporne il concetto, da inserire in seguito nell’enciclopedia dell’abbraccio che wikipedia in confronto sarebbe un nulla. Ma poi, voi lo sapreste spiegare un abbraccio? Ma quale? Ne esistono più di mille miliardi di tipi differenti!

C’è quello da che bello rivederti vieni qui che recupero le informazioni via bluetooth heart to heart, quello da adesso ti entro dentro e mi ci piazzo lì come se tu fossi un sacco a pelo, poi quello dell’adesso il sacco a pelo lo faccio io e mi ti ci chiudo attorno con la zip, quello da stammi lontano ma per educazione non posso dunque ti abbraccio ma poco pochissimo. Poi c’è quello dell’abitudine, dell’oddio oddio che ansia, quello del non ti preoccupare che il mio è un abbraccio che dona poteri da supereroi, quello mai dato, quello che non si riesce a dare e quello che vorresti ma non puoi chiedere. Poi ci sono quelli che ti danno energia e quelli che te ne tolgono, quelli che depurano e quelli che inquinano, quelli che ringiovaniscono e quelli che ti sembra di invecchiare vent’anni. Alcuni inoltre profumano di pino, altri di nebbia, di sole o di fatica; una volta ne ho sentito addirittura uno che sapeva di mela, polvere da sparo e film al rallentatore: una miscela che non vi dico!

Visto? Più vado avanti più capisco quanti ne tralascerò; l’abbraccio mi si sta moltiplicando in mano come le scope dell’apprendista stregone: ne cito uno e ne vengono fuori mille. Eppure uno che spicca su tutti c’è. Ero in una di quelle giornate di super gioia fino a quando un irrisolto ha deciso di staccarsi improvvisamente dalle tubature e salire in superficie generando un crollo. Ma non di quei crolli da lacrimuccia e basta, no, roba da singhiozzi che sconquassano e mamma mia quanto fa male a volte disincrostarsi da pezzi di vita. E va be’: prendo il cane, mi vesto da pioggia, cappellone a falde larghe e via, che tanto non vede nessuno. Tre ore in giro sotto una pioggia incessante complice e discreta, fino a quando ho incrociato lo sguardo di una Signora che tornava dalla spesa. Quattro secondi, non di più, ma in quei quattro secondi mi è arrivato uno degli abbracci più potenti che abbia mai ricevuto. E non era una cosa da dai che poi passa, ma si che ce la fai, ti capisco, o poverina chissà cos’ha, non preoccuparti o se hai bisogno io ci sono, no, era il big bang degli abbracci, uno scoppio di luce da cui poi è stato generato l’universo intero degli abbracci con tutti i suoi relativi pianeti, stelle, forme di vita eccetera, e una cosa immediata poi, mica come quello là che ci ha messo sette giorni e alla fine era pure stanco e ha dovuto prendersi un giorno di riposo. Pensate che dopo tutta quella creazione ha persino cessato di piovere, sono apparse le primule anche se era settembre e un coro di lucciole mi ha accompagnata a casa: insomma, cose che nel mondo degli abbracci accadono tutti i giorni, peccato solo che a volte sia un pianeta così lontano…

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Bianco su bianco di Finzi Pasca, per #faigirarelacultura

Foto tipress

Foto tipress

Lo so, sono di parte, ma quando guardo certe cose non posso fare a meno di dirmi “sì, ecco perché stai con me”. Sto parlando di Daniele Finzi Pasca, il noto regista, attore, scenografo, produttore (e chi più ne ha più ne metta) ticinese, o in una sola parola “Lui”. Ho appena assistito alla sua ultima fatica, e quindi sono ancora completamente assorbita dal suo mondo sirrutesco, che è una parola nuova (chi ha visto “bianco su bianco” sa cosa intendo) che vuol dire nel contempo “terra”, “dita di piedi che si sgranchiscono”, “temporale” (è un ingrediente che con Lui non manca mai), “vento dell’est”, “orsa polare”, “menta piperita” e “polvere che luccica nel sole”.

Dico Lui perché per me Daniele Finzi Pasca è una presenza attiva. È seduto lì sulla mia spalla insieme ad altri, pronto a sussurrarmi all’orecchio come Lui vedrebbe quel fatto, come lo interpreterebbe, come lo disegnerebbe o metterebbe in scena, oppure semplicemente l’effetto che farebbe a Lui. Un po’ come quelle vocine interiori che chissà perché si considerano sempre birichine, dei diavoletti pronti a farti deragliare offrendo tentazioni e false visioni.

E se invece servissero per rimetterti in carreggiata? O per scegliere effettivamente quella giusta da seguire? O magari sono lì solo per farti sentire un po’ meno solo, quando hai voglia di chiudere gli occhi e lasciare che in quel momento siano altri a guardare per te. Daniele Finzi Pasca non è comunque l’unico amico di spalla; è seduto vicino a Gianluca Grossi, Amelie Poulain, Gottlieb Duttweiler, Giacometti, Forrest Gump, Renzo Rosso, Topo Gigio, Styles e il nano Franz, più un sacco di altri animaletti strani di passaggio a cui offro riposo nel loro infinito girovagare. Forse la cultura è anche questo: offrire un luogo dentro sé dedicato ad altri punti di vista e lasciare che a volte siano loro a parlare… anche se è vero che in fin dei conti raccontano poi tutti la stessa cosa, che altro non è se non la vita.

Festival Jazz Ascona, per #faigirarelacultura

Festival Jazz Ascona. Ritmo e improvvisazione. Questo è il jazz. Ritmo e improvvisazione. Come la nostra serata. Ascona, il lago, il luogo, il lento passare per vie ancora deserte, il lento fluire di un domani che ancora non c’è. (Una voce: Summertime and the livin’is easy). Ciotoli rossi, strada in discesa, aperitivo al porto, cuscini verdi e un’ape che sappia indicare la via. (Partono le note di un pianoforte). Il cielo grigio si fonde con il lago, che è il luogo, che è il lieve passare del tempo, scandito dal movimento del capo. (Fish are jumpin’ and the cotton is high).

La musica cambia, i racconti si intrecciano, i cappelli aumentano, le luci echeggiano, il cielo si apre. (Contrabbasso e piatti: I Know why I Waited). Un piede tiene il tempo, che non è più lento, che fluisce attraverso desideri che non sanno più aspettare. (Know why I’ve been blue). Un caffè shakerato con ghiaccio a pezzi, con pezzi passati e cannuccia nera, la notte è nera, la voce è d’oro e le dita rullano su quello che c’è. (Due sax, un palco, un pubblico, e noi). Il cielo trema, il cielo è a trame, il cielo sovrasta, il cielo improvvisa (I’ve been waiting each day). Il pianista si alza, le braccia e anche noi, la pioggia è sulla schiena, la pelle ringrazia, la pelle che resta, la pelle che chiama. (Assolo di tromba). Il ritmo incalza, il pensiero è fisso, le mani applaudono, il cuore è. (For someone exactly like you).

Una voce dal pubblico sale improvvisa, sale decisa, sale che graffia, che morde, che accoglie, che plasma ritorna e va via. (L’atmosfera esplode, la gente è con lei). Il lago spumeggia, il cielo gorgheggia, le luci contengono, i fischi richiamano, i musicisti ritornano, è il bis. (Sax sax sex, piano, basso, batteria e tromba guest da New Orleans). Sul palco si ride, sul palco si dice, sul palco si è dentro, sul palco si è fuori, portano noi dentro, portano noi fuori. (For someone exactly like you). Il temporale si placa, il buio è tenace, il ritmo che tace, Ascona è il luogo, il luogo è ieri, il fluire è lento e accompagna al rientro. (For someone exactly like you). L’automobile si ferma, la portiera si chiude, la casa è deserta, il vento accarezza, la doccia rinfresca, il letto è la notte che ora qui c’è. For someone exatly like you. For someone exatly like you.

Recensione pubblicata su Timmagazine

World Press Photo 15 a Monte Carasso, per #faigirarelacultura

World Press Photo 15: più che un odore è un tunnel

È la terza volta che mi approccio al computer per scrivere il pezzo, ed è la terza volta che mi fermo a guardare lo schermo senza che alcun pensiero riesca a concretizzarsi. Eppure è sufficiente andare a fare una passeggiata, guidare, sedermi a tavola o prima di assopirmi, e il pezzo fluisce da sé. Me lo racconto, lo ascolto, lo vedo e lo vivo, ma di scriverlo non se ne parla proprio. Tutto è iniziato il 3 giugno scorso, all’inaugurazione del World Press Photo 15, presso Spazio Reale a Monte Carasso. Una serata come tante, un’esposizione di fotografie come se ne vedono ogni giorno sui giornali, eppure qualche cosa di diverso è accaduto. Quelle immagini sono in grado di bloccarti lì davanti ma non solo con lo sguardo, con tutto ciò che sei: dalle viscere ai pensieri, al passato al destino in attesa, e così diventi tu stesso un’istantanea di quell’essere che ti porti dentro e attorno, una radiografia spazio-temporale scattata da quella cosa che ti sta davanti che a sua volta è stata scattata da qualcun altro che echecazzograziedipermettercidivedereecapire. Vedere e capire, anche se capire è un parolone. Ecco. Tu guardi lì e vedi qui, capisci circa e non comprendi niente, ma è proprio attraverso quel vuoto di tutto che ti si crea dentro che riesci ad arrivare di là: è un tunnel di nulla in grado di portarti lo sguardo fin quasi dentro l’apparecchio fotografico che ha immortalato l’attimo e, se ti avvicini ancora un po’, riesci pure a sentire l’odore di ciò che vedi, e non è quasi mai buono, e non lo bisognerebbe nemmeno chiamare odore ma vita, anche se a volte si fa persino fatica a chiamarla così.

E non è che poi uno sia subito cosciente di questa cosa; sul momento è vero si resta comprensibilmente toccati, si leggono le didascalie, la storia, il perché e il percome, la giuria e il premio, e quando si esce i bla bla bla sull’esposizione si moltiplicano. È dopo che te ne accorgi, quando magari lo vuoi raccontare a qualcuno e non ci riesci, quando lo vuoi scrivere e non sai da dove cominciare, quando guardi l’agenda e ti domandi “ma davvero il 3 giugno sono andata a quell’inaugurazione?”, perché di fatto non ricordi più nulla. Ed è in quel momento che lo intuisci, che lo vedi per la prima volta: il tunnel! È ancora lì, non si è chiuso, è rimasto attivo: è quel nulla attraverso cui hai sentito l’odore che non è odore ma è vita e nemmeno quella ma anche sì porcaputtana. E allora torni là e vedi e capisci, anche se capire è un parolone, e ti accorgi che quelle immagini non sono solo istantanee ma sono proprio pezzi di esistenza tolti alla storia, dei frame rubati al tempo al cui posto è rimasto il nulla, un vuoto, un quadratino nero a cui ora è possibile accostare l’occhio e guardarci attraverso. Poi lo senti, e questa volta non si tratta più solo di un odore ma è anche un rumore: “click”. Non sempre però si tratta del click della macchina fotografica e in questo caso non ti restituisce sempre in un click la vita ma, come sta accadendo anche adesso un po’ ovunque nel mondo, si tratta di quel click che la vita, la vita, te la toglie.

L’esposizione World Press Photo 15 sarà visibile fino al 24 giugno 2015 presso l’Antico Convento delle Agostiniane a Monte Carasso. (articolo pubblicato su Timmagazine. Leggi il pezzo.)

Il Flying Film Festival, per #faigirarelacultura

Ci sono film in grado di proiettarti altrove, in luoghi lontani, in storie vicine, attraverso viaggi temporali o modificando l’attorno. E se tutto questo avvenisse proprio mentre in un viaggio ci sei davvero, dove tutto sotto dite si modifica in ogni istante, e ciò che ti era vicino diventa improvvisamente lontano? Sarebbe l’apoteosi dell’evocazione cinematografica, la proiezione estrema elevata alla seconda, una risonanza di emozioni in grado di invadere il viaggiatore in una continua eco di storie e immagini raccontate.

Ebbene, tutto questo è divenuto realtà. Ci ha pensato l’Associazione culturale Le Système D, organizzando il primo festival di cortometraggi ad alta quota. Durante i mesi di marzo e aprile sarà infatti possibile partecipare al Flyinf Film Festival sui voli Swiss a lunga distanza (A330 e A340).

Anche per Francesca Scalisi, di Le Système D, l’attenzione dello spettatore cambia stando in cielo: «Personalmente volare in aereo mi ha sempre dato la sensazione di essere in una bolla fuori dal tempo e dallo spazio, nel ventre materno primordiale e accogliente, in una terra di mezzo tra il finito e l’infinito – ci ha confidato -. In questa particolare dimensione, chissà, forse le emozioni e le sensazioni che un film trasmette penetrano nell’animo senza più alcun filtro».

Nove cortometraggi che, passo dopo passo, avvicineranno i viaggiatori a destinazione; nove cortometraggi che sarà possibile votare sul sito flying-filmfestival.com, permettendo al più nominato di accaparrarsi il premio del pubblico.

Dunque cosa aspettate? Se volete vivere un concentrato di emozioni non vi resta che prenotare un volo Swiss, mettervi comodi e allacciare le cinture di sicurezza; lasciatevi poi trasportare verso i mondi lontani visibili sia dentro che fuori lo schermo, fino al raggiungimento di una nuova meta, dentro o fuori che sia.

Recensione pubblicata su Timmagazine.

La mia Verità su Daniele Finzi Pasca per #faigirarelacultura

Daniele Finzi Pasca è un grande chef! Lo dico da tempo: Daniele è un cuoco sopraffino, uno chef di prim’ordine, uno che con le stelle Michelin guadagnate avrebbe potuto decorare un abete grande come quelli che ci sono nelle piazze più famose, che al solo guardarli sorridi e sogni. Per i suoi spettacoli lui impasta immagini, aggiunge suoni speziati, amalgama storie come fossero burro fuso e inserisce qua e là qualche scaglia di realtà fondente… poi lascia riposare l’impasto in un luogo caldo, intimo, che si attesta solitamente attorno ai 37 gradi centigradi e, a lievitazione ultimata: “booooom”… ti scoppia dentro un pasticcino di ricordi che al confronto la madeleine proustina sembra un tic tac. Cioè, lui riesce con uno spettacolo a proiettarti in altri, nel passato, nei tuoi ricordi e persino in quelli del signore seduto di fronte a te, che se non sei un po’ forte di cuore rischi di rimanerci secco.

E così è accaduto anche durante lo spettacolo La Verità, in scena a Milano le scorse settimane: vedi un soffione gigante e ripensi a un vestito che se Ruggero ma anche quello della tua bisnonna, appare un cappello luccicante e ti ritrovi a giocare a pallone sotto un temporale ballando il charleston, entra la testa di un cavallo e senti il rumore della nave rompighiaccio solcare mari che profumano di pino cembro, senti una musica fatta di nebbia e scompari e riappari a ritmo stroboscopico, assisti alla danza di un acrobata in salita verso il cielo e sul pavimento appare l’ombra di Icaro, di un armadio e un tappeto ai cui angoli crescono le fragole… poi ci sono le ombre, gli angeli, i tamburi, i canti, i corpi, le composizioni, gli wow, i colori che nemmeno Marc Chagall, le orecchie che si moltiplicano e te le ritrovi anche sotto i piedi e la pelle che si ionizza e ti sembra di depurare persino l’ambiente… ma soprattutto loro, gli occhi, che vorresti grandi il doppio perché tutta quella roba lì in due cosini grandi come una noce non è possibile ci stia.

Eppure lui ce la fa, sempre, lui riesce sempre a farci stare tutto, anzi di più, perché ogni volta riesce persino a farci piovere dentro… poi lo so, resto imbambolata per giorni a domandarmi come diavolo faccia Daniele Finzi Pasca ad essere ogni volta così straordinariamente galattico, capace di creare continui fermoimmagine estetico-poetici che se non appartengono a un piano infinito quelli io non so. E il giorno dopo, per ritrovare un contatto con la realtà, sono uscita di casa, ho alzato gli occhi al cielo per controllare cosa fosse in arrivo e ho sbadigliato, ma alla fine non ce l’ho fatta… ho azzardato un passo di cancan, ho fatto un salto, urlato sottovoce e sputato dalla bocca un animale, che sapeva di menta, e di papà.

Recensione pubblicata su Timmagazine.