scritti

Omaggio alla scultura Il cane di Alberto Giacometti

Ehi tu, cane, essere libero dalla gabbia della società ma non da quella in cui è racchiuso ognuno: la realtà. Istinto puro, fedele amico, ti muovi per il mondo corrodendoti come tutti noi a causa dell’atmosfera, che null’altro è se non il riflesso di un’esistenza fugace, laddove nella distanza tutto accade. 

È un luogo privo di staticità, colmo di un fluire denso in cui respirare significa annegare senza morire, non subito almeno. A noi umani tocca assorbire coscientemente l’elemento che ci consuma, mentre tu semplicemente procedi annusando la fame, le botte e quella cagna in cui vorresti affondare il sesso, non certo questo nostro divenire ombra e infine punto, posto nell’addio.

A guardarti camminare così, cercando dove lasciare un segno, c’è da chiedersi quanto inseguire un significato sia utile anche solo per rallentare l’inevitabile sgretolamento. A te questo non importa, alzi la gamba, pisci e sei lì, per te e per i tuoi simili che arriveranno a breve, aggiungendo il loro esserci al tuo. 

Forse le persone non sono altro che questo: angoli di muro, spigoli di immensità pronti a raccontare ai posteri ciò che è stato e che rimarrà, in una somma di presenze che nessuna pioggia è mai riuscita a cancellare. 

Vieni cane, avvicinati io non ci riesco, le catene della mia stessa temporaneità mi impediscono di andare altrove. 

Vieni cane, fatti accarezzare, fammi sentire quanto sia morbido non sapere, quanto sia soave aver per padrona l’eternità.

Testo ideato per un concorso legato a un’esposizione di Alberto Giacometti, in cui si chiedeva di scrivere un racconto legato a una qualsiasi scultura dell’artista.

Quella sosta obbligata alla curva di Montebello

Quando mi reco dall’Engadina a Poschiavo ho una tappa fissa che non manco mai, come quando dal Ticino andavo in Svizzera Interna, dove Ovomaltina e nussgipfel all’autogrill di Raststätte erano una tradizione che rasentava la scaramanzia. Ma in questo caso non si tratta di un ristorante, un parco o una terrazza, no: è una curva. 

Ovvio, esiste lo spazio per potersi fermare e per fortuna, perché proprio non si riesce a passarci davanti senza nemmeno uno stop. E sì che in quella sosta non vi è nulla se non proprio quello, il nulla. Sarà forse questo il motivo per cui non si sente mai nessuno parlare. 

Uno scende dall'auto, fa un paio di passi, alza lo sguardo e sta lì, così, a respirare; al massimo scatta una foto o si mette le mani in tasca. Una volta ho visto addirittura un Signore tornare in auto a spegnere la musica e poi rimettersi là, in estatica contemplazione.

Non saprei dire se sia una sensazione che faccia stare bene o male, semplicemente fa, come essere lì ma non solo, e ritrovarsi nel contempo un po’ ovunque.

A dire la verità però c’è una cosa che faccio prima di rimettermi in viaggio, ed è lanciare un desiderio come si fa con le monete nelle fontane, solo che questa è grande quanto il mare, solo che questa è il Bernina.

Articolo pubblicato su Il Bernina il 28 settembre 2019.

Momenti sospesi

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Dicono che a ogni essere umano sia destinato un piacere che si tramuterà in tormento; a me sono toccati i momenti sospesi. Il primo che mi capitò di incontrare fu attorno ai quindici anni. Era estate. Mi trovavo in giardino all’ombra di un ciliegio a leggere una rivista, quando improvvisamente venni risucchiata verso l’alto. Sotto di me apparve un’imponente foresta di conifere da cui udivo provenire cinguettii, zoccoli che si muovevano sul terreno ricoperto da aghi di pino, fischi di marmotte in allerta e qualche colpo dato alla corteccia. Il profumo di resina giunse fin lassù, accompagnato dall’odore di selvaggina che mi fece ricordare il sapore del sangue, ed ebbi subito fame. D’altronde quel giorno mi ero alzata in volo per andare a caccia, non per sfogliare riviste e leggere pubblicità. Bastò questo pensiero per riportarmi in giardino dove passai il resto della mattinata seduta al sole, visto che l’ombra ormai non c’era più. 

Cos’era accaduto? Gli anni seguenti provai a capire senza riuscirci mai. La seconda esperienza mi sorprese per le strade della città, mentre stavo osservando l’esposizione di pasticcini di una confiserie. Me ne accorsi dall’odore salmastro; mare? Impossibile, mi trovavo a chilometri di distanza. Ne cercai il motivo quando i piedi iniziarono a sprofondare nella sabbia: sorrisi. Eccolo, dopo tanto aspettare stava di nuovo accadendo. Nella vetrina vidi il mio riflesso dietro cui si aprì un orizzonte marittimo. Sentii il rumore delle onde e l’acqua bagnarmi il vestito. Volevo chiudere gli occhi per meglio godermi l’istante ma avevo timore potesse svanire, e fu un errore. “Signora desidera?”. La commessa era uscita in strada, probabilmente non gradiva sostassi così a lungo davanti ai suoi dolciumi. “Servite anche del whisky?” le risposi. Passai il resto del pomeriggio seduta in quel locale a osservare il mare, anche se ormai non lo vedevo più.

Dunque i momenti sospesi esistevano davvero, ma dove si trovavano, come raggiungerli o crearli? Nel corso della vita ci passai accanto diverse volte; allungavo la mano cercando di afferrarli ma dovevo accontentarmi di sentirne il lembo scivolare via, fino al giorno in cui loro tornarono a cogliere me. Era notte fonda. Vista l’età dormire era ormai diventato un lusso, così uscivo a passeggiare. Giunta vicino al lago mi accorsi che qualcuno mi stava abbracciando. Naturalmente non lo vidi, ma sentii il cappotto ruvido sfiorarmi la guancia; portava il dopobarba e la sua anima sapeva di terra, quando sussurrò “va bene così”. In quell’istante divenni occhio di falco, bramito di cervo, fuga di lepre, morso, sangue, succo di ciliegia e marea. Mi abbandonai a quel rassicurante ed eterno abbraccio, e non tornai mai più.

Testo pubblicato sull’Almanacco del Grigioni Italiano 2019.

A un anno dal mio andare a vivere in Engadina

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Me lo ero ripromessa: il giorno che Facebook mi riproporrà l'immagine di Artù nella pozzanghera scriverò di come si sta a vivere in montagna, ed eccola apparire stamane nella mia timeline. Un anno. È passato un anno esatto da quando andai in Engadina a vedere ciò che oggi è diventato il mio atelier, la cui firma del contratto avrebbe significato cambiamento con la C maiuscola. Quando scattai questa foto era pomeriggio inoltrato e avevo la febbre a 38,5; sentivo non essere influenza, probabilmente si trattava solo di paura. Lo stavo facendo veramente? Sì, dovevo.

Cosa posso dire ora del mio vivere in Engadina? È tanta roba, ma tanta davvero: occorre imparare a viverci perché tutto risulta enfatizzato, e per tutto intendo anche se stessi. Si è costantemente immersi nell’ascolto di un fuori e di un dentro che alla fine non se ne riconoscono nemmeno più i confini. È come se ti venisse sparato nelle vene un liquido di realtà aumentata che all’inizio pensi di non riuscire a gestire ma poi, per fortuna, si inizia a comprendere e a trovare il giusto modo di sopportare. Sì, perché a volte è davvero un sopportare. Sembra assurdo da dire, ma solo qui ho potuto sentire il dolore che la bellezza può provocare, ed è davvero un male fisico, capace di spezzare anche se cosa bene non so. Sovente mi è capitato di ritrovarmi a piangere di commozione guardando nel cielo giochi di luce incredibili e pensare "basta, è troppo"; ora, a quasi un anno di distanza, son riuscita se non altro a sostituirlo con un semplice “grazie”, anche se male riesce a farlo ancora. 

C’è da considerare inoltre che non ho distrazioni, quindi posso davvero immergermi in stati di pensiero ampi, dove ciò che prima magari rimaneva incastrato fra stress, traffico e difese ora non trova più ostacoli ed è libero di salire a galla, qualunque cosa sia. Diciamo che passato l’entusiasmo iniziale la primavera è stata un po’ più difficile, mentre ora non so se riuscirei già più a tornare. Me ne accorgo quando scendo in Ticino: sono sufficienti un paio di giorni per sentire come lì sia necessario alzare le difese per non venir travolti. Non ho ancora capito se stare nella natura renda più vulnerabili o insofferenti verso certe realtà quindi sì, io sono una di quelle a cui potrete dire “facile fare i filosofi in mezzo al nulla” e avreste ragione; in città non ci riuscirei, o almeno non nella mia e non ora. D’altronde ho scelto quell’altopiano proprio per lo stato in cui è sempre riuscito a portarmi, condizione assolutamente necessaria per la strada che ho deciso di seguire.

Che poi io sia una persona estremamente fortunata ad essermi potuta permettere di sperimentare ciò non lo metterò mai in dubbio ma, visto che questa è la mia storia, cerco almeno di viverla appieno. C’è comunque ancora da aggiungere che lassù la solitudine è una costante, le condizioni meteorologiche possono essere impietose e la montagna deve assolutamente piacere, ma per fortuna conosco persone meravigliose con cui è possibile scambiarsi calore umano sia attraverso un tavolo che via web e, quando la fame di civiltà si fa sentire, in un attimo si può essere a Zurigo, Lugano o Milano. In pratica nell’anno appena trascorso non sono mai stata così felice e nel contempo non ho mai sofferto così tanto in vita mia ma, se proprio dovessi riassumere quest’esperienza in una parola non avrei dubbi e userei ossigeno, anche se in fin dei conti null’altro è se non quella cosa chiamata opportunità, o a volte anche semplicemente vita.

Sankt Moritz addormentata

Della bassa stagione mi piace la calma, il silenzio, l'indefinito clima, gli sguardi delle rare genti e, soprattutto, le dame dormienti. Sono gli hotel, le case, le vie e tutto quanto in quel momento riposa abbandonato nel suo stesso respiro. Osservarli in quegli istanti permette di coglierne l'essenza, la personalità, il carattere e la bellezza vera, quella propria della vulnerabilità. 

Stamane son salita in paese per ascoltare il battito lento della dama Sankt Moritz, di cui qui ne riporto un omaggio (video da ascoltare).

Sankt Moritz addormentata (testo)

Eccola, dorme. Il rossetto aperto sul comò, vicino al bicchiere di gin tonic ormai vuoto. 
Un lenzuolo copre lo specchio.
Nuda, distesa sul manto di morbida terra, il cui profumo avvolge i sensi.
E respira.
Il soffio del suo vivere attraversa vie come dita fra i capelli.
E sogna.
Un leggero movimento delle palpebre ne tradisce i desideri.
Allungo una mano e ne sfioro i confini.
È morbida, calda.
Incontro uno sguardo, ci sorridiamo in silenzio.
La dama riposa.
La dama aleggia nel sonno del suo divenire, su labbra che presto torneranno a desiderare, che presto torneranno ad apparire.