momenti

Quella sosta obbligata alla curva di Montebello

Quando mi reco dall’Engadina a Poschiavo ho una tappa fissa che non manco mai, come quando dal Ticino andavo in Svizzera Interna, dove Ovomaltina e nussgipfel all’autogrill di Raststätte erano una tradizione che rasentava la scaramanzia. Ma in questo caso non si tratta di un ristorante, un parco o una terrazza, no: è una curva. 

Ovvio, esiste lo spazio per potersi fermare e per fortuna, perché proprio non si riesce a passarci davanti senza nemmeno uno stop. E sì che in quella sosta non vi è nulla se non proprio quello, il nulla. Sarà forse questo il motivo per cui non si sente mai nessuno parlare. 

Uno scende dall'auto, fa un paio di passi, alza lo sguardo e sta lì, così, a respirare; al massimo scatta una foto o si mette le mani in tasca. Una volta ho visto addirittura un Signore tornare in auto a spegnere la musica e poi rimettersi là, in estatica contemplazione.

Non saprei dire se sia una sensazione che faccia stare bene o male, semplicemente fa, come essere lì ma non solo, e ritrovarsi nel contempo un po’ ovunque.

A dire la verità però c’è una cosa che faccio prima di rimettermi in viaggio, ed è lanciare un desiderio come si fa con le monete nelle fontane, solo che questa è grande quanto il mare, solo che questa è il Bernina.

Articolo pubblicato su Il Bernina il 28 settembre 2019.

Il senso dell'autunno

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È quello stare seduti su una panchina, al sole, ad occhi chiusi, lasciando al caldo percepito sulla pelle il compito di trasportarci nel paesaggio. Se in quel momento ci fosse un pittore intento a riprendere l’attorno non si accorgerebbe nemmeno della nostra una presenza, ci ritrarrebbe semplicemente come parte dell’insieme, fusi nel panorama.

E poi l’odore, come definirlo? La fragranza scaturita dai sentieri al nostro passaggio è un miscuglio di terra, resina, selvaggina ed esperienze. Dal bouquet olfattivo si possono inoltre riconoscere alcune note di pensieri, qualche risata, un accenno di meraviglia e a volte persino una vena di rimpianto, abbandonata sul cammino affinché possa iniziare a dare vita ad altro, o scivolare via.

Quando si rimane assorti in questo stato, accade sovente che salgano alla mente singole parole come fanno i gnocchi ormai cotti prima di adagiarsi in superficie. In questi casi per assaporarle è sufficiente iniziare a pronunciarle, ed ecco quindi fuoriuscire dalle labbra bocconcini di castagne, ribes, brindisi, musica, tartufo, battiti, vaniglia, arance e così via, fino ad arrivare a croccanti biscotti fatti di baci, o di commiati.

E le voci? Durante il giorno è un continuo ascoltare storie, suoni, respiri e canti giunti da indefinite distanze, i quali sussurrano all’orecchio indovinelli la cui risposta va cercata là fuori, in quel tripudio di colori a cui bisogna ogni volta riabituare lo sguardo, perché per conoscere davvero questa stagione occorre osservarla a lungo fino a quando messa a nudo si ritrae, e scompare.

L’autunno è fatto così, si agghinda e si mette in posa per distrarci ma se si ha la pazienza e la volontà di andare oltre si capisce che l’immagine non è quella che si ha di fronte, ma appare a poco a poco come negli scatti delle vecchie Polaroid. Per coglierlo ci vuole quindi qualcuno che abbia l’intenzione di lasciarsi avvicinare e impressionare, che sappia a sua volta allungare la mano per sventolare il risultato e soffiare delicatamente sulla superficie: si vedrà così apparire il sentimento dell’autunno immortalato su una panchina, ad occhi chiusi, intento a godersi il sole, seduto proprio accanto a noi.

Articolo pubblicato su Il Bernina il 29 ottobre 2018.

Quello che non so, sul gioco del polo sulla neve

Quello che non so è una rubrica che tengo su Radio 3 Network una volta al mese: pillole di un paio di minuti su ciò che, appunto, non so. In quella andata in onda martedì 27 febbraio ho parlato del gioco del polo sulla neve dove, sembra, esistano regole e risultati ma che insomma, non conoscendole ho potuto leggerci altro ;-).

Testo del video:

Quello che non so, è cosa aspettarmi dal gioco del polo sulla neve. Arrivo a bordo campo, vedo otto giocatori, cavalli, mazze, arbitri e infine lei, una palla arancione che si muove su un suolo bianco come la pagina di un libro, e in quel momento capisco: quella palla non si sta solo muovendo, sta scrivendo. Al suo passaggio appaiono infatti parole, che diventano poi frasi e infine vita, perché è questo il tema del racconto.

Ad esempio, mentre due cavalli si affiancano, tesi, pronti allo scatto, a quel correre già iniziato stando fermi e che magari non accadrà mai, ecco apparire la storia di un desiderio, di pulsioni e pulsazioni all’unisono, di morsi strappati ai sensi, masticati e infine lasciati colare sul mento, il collo, fin sul petto.

Oppure dietro una fuga verso fondo campo sono apparse parole come ossigeno, bagno sotto una gelida cascata, meta appena raggiunta e vittoria a lungo sofferta; o ancora urlo a un cielo in tempesta e tuffo, tuffo ci sta, ma di quelli che apri le braccia e ti lasci cadere di schiena, nel mare.

E nel contropiede? Cosa dire di ciò che è scaturito dalla straordinaria opportunità del tutto, dalla volontà unita alla tenacia, dall’afferrare, stringere e mantenere? Aveva molto a che fare con il notare qualcuno a cui vuoi bene sorridere, e sentirne la risata.

Contatti come frasi, colpi come accenti, falli come punteggiature capaci di cambiare il significato di un periodo, gol che hanno definito paragrafi e il ritmo del racconto. 

Insomma, quello che non so e che continuo a non sapere è quali ruoli abbiano rivestito gli otto giocatori, quali regole abbiano dovuto rispettare e chi abbia vinto, ma di una cosa sono certa: nel cuore di ogni spettatore presente alla manifestazione, quel giorno si è materializzato un ricordo: per ognuno diverso nella trama, nei protagonisti e nelle vicissitudini ma non nel finale, che per tutti si è trattato come sempre di punto, ma stavolta era di color arancione.

2018: il mio discorso di inizio anno

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È come stare su una landa, un luogo, un lontano. Salire sul monte più alto, guardarsi attorno e pronunciarlo da lì, il discorso di inizio anno. Vedo le nuvole basse all’orizzonte, aperte quel tanto da lasciar passare la luce del sole, in formazione raggi. Raggi di ruote che girano all’infinito e mai sostano, per me e per altri che sono, o che verranno. Sotto c’è lei: la mia terra. È un territorio fatto di tentativi, sbagli, persone, storie, esperimenti, soddisfazioni, scoperte, ricordi e salti. Qualche fiume e un lago; un bagliore. Qualche collina e qualche albero. Una foresta abitata e un sentiero da raccogliere. Canti che arrivano da altrove. Mani che crescono nei prati. Petali di parole su cui soffiare. 

E poi tane abitate o pronte da occupare, notti in bottiglia e stelle nel camino. Del vento, gli occhi chiusi. Niente pale, vanghe o zappe, ma sogni che sanno dove attecchire; occorre fidarsi del loro vagare, o sparire. Un baratro di alito caldo che porta ghiaccio nel sangue. Il sole: quello negli occhi che trasforma il controluce in ombre da ritagliare, con le dita. Colori sparsi al suolo. Muschio sulla pelle per sapersi orientare; un becco rapace da ascoltare. Soffice afferrare di respiri trattenuti. L’odore delle zanzare, la lunghezza di una schiena. Tentazioni di lucidità appaganti da aspirare. La musica. Uno specchio per raggiungere il mare. Il sapore delle perle racchiuse attorno a momenti accantonati. Una casa. Un atelier. 

Terra dal giusto sapore, che nel sorso del brindisi osservo non per cambiare, ma per comprendere. E da qui pronuncio: “Del qui e del domani, del possibile e del non ci arriverò, che il risuonare dei nostri calici uniti giunga come lo schiocco di un bacio dietro l’orecchio di nuove intenzioni. E se di questo bere avrò di che ubriacarmi, che siano bollicine di esistenze in movimento verso l’alto, per solleticare volti, affinché il cielo possa sorridere, sorriderci e continuare a sorprenderci, sempre”.

Siate chi siete, e che 2018 sia.

Un giorno da guardiana alla Galleria PGI

Gli spazi dormienti hanno sempre esercitato un grande fascino su di me. Li considero tali quando sono privi di presenza umana, anche se so che le persone non sono responsabili dello stato di veglia di un luogo. 

Quel giorno avevo già la chiave in mano, occorreva aprire la porta facendo attenzione a non svegliare nessuno e così è stato, almeno in principio. Passare qualche istante nella Galleria PGI di Poschiavo, sola, mentre le opere d’arte appese si muovevano al lento ritmo del respiro dei giusti è stato meraviglioso. Son di quelle cose che ti fanno sentire lì, o forse anche solo sentire, non so. 

Accese le luci ho fatto un giro di saluto ai quadri esposti bisbigliando il numero corrispondente in segno di educazione. Non dovrei dirlo, ma i miei dipinti li ho accarezzati: stavano facendo un buon lavoro e quel gesto di affetto mi è uscito spontaneo.

Dicono esista una distanza ideale da cui ammirare un lavoro. In principio a me piace allontanarmi per poterlo osservare incastonato nello spazio, trasformato per un istante in un solitario infilato al dito del gesto. In seguito mi avvicino talmente tanto da riuscire, in quel gesto, a guardarci attraverso, riuscendo a scorgere una lampada accesa su una scrivania, un pennello intinto nei colori, la testa appoggiata alla mano in segno di stanchezza oppure, a volte, persino riuscendo a sentire la musica di sottofondo presente nell’atelier.

Tutto questo accadeva mentre il ticchettio dei radiatori aleggiava per i locali al ritmo di un tempo che sembrava docile e incalzante. Fuori il passaggio di una bicicletta, alcuni bambini intenti a giocare con la neve, e la luce del giorno che si stava chiudendo in un occhio strizzato, come a dirmi “stai attenta, adesso arriva il bello”.

E così è stato. Più il crepuscolo avanzava, più le opere esposte in Galleria trovavano spazio all’esterno, tanto che per un attimo in piazza è apparso il Cervino ed eleganti donne hanno ammiccato ai passanti. Come braccia protese sulla via di passaggio questo effetto di rifrazione ha portato all’interno persone le cui chiacchiere mi hanno accompagnata all’orario di chiusura.

E quale piacere a fine giornata abbassare gli interruttori e fermarsi nei locali ancora un istante, lasciando alla notte la possibilità di manifestarsi attraverso le ombre e i silenzi, di uno spazio che voltandomi a chiudere la porta son riuscita persino a scorgerne gli occhi, svegli.

Nevicata mattutina

Non è solo per l'intensità delle stagioni, per la bellezza dei luoghi, per la luce straordinaria e per tutto quanto un paesaggio montano simile riesca ad offrire. È soprattutto per le possibilità di vivere istanti senza distrazioni, in ascolto, in completo abbandono, in piena fiducia. 

Nel video i pensieri di stamane (da ascoltare):

Nevicata mattutina, 19 novembre 2017

È assenza e somma di colori, è un contare quanti in quell’istante, su quella traiettoria, da dove ti trovi a dove potresti invece stare.

È un non rumore, un sciogliersi sulla pelle, affondare nel presente e sentire il cielo basso sulla testa, vicino le spalle, dietro la nuca, nell’esatto punto d’accesso ai brividi del mondo.

È un osservare la continua composizione che cambia, chiudere un occhio, l’altro, ed entrambi, per lasciare che a disegnare il paesaggio non sia solo la neve, ma anche le sensazioni che fiocco dopo fiocco, ondeggiando, si adagiano al suolo, diventando manto.

Quando una fotografia si apre

E quindi le fotografie possiedono una data di scadenza. Non nel senso che passato un certo periodo è necessario buttarle, è solo che dopo una tale data finalmente si mostrano. Un po' come fossero un calendario dell'avvento autonomo; trovi una finestrella aperta quando decidono loro. Altrimenti non si spiega come mai ciò che scatto oggi, il giorno mese anno dopo acquista un significato diverso. E sai che regalo venire invasi da quella cosa lì che è come rivivere un istante di cui però non avevi né coscienza né memoria, o almeno non in quel modo.

La foto di oggi è una di quelle: appena l'ho vista ho capito cosa ho realmente immortalato. Non il primo d'agosto, un uomo, i falò e a chi mancano, il caldo sprigionato o il silenzio che regnava no, ho voluto fotografare me. E niente, era solo per dire che a volte riguardo le immagini e queste, come nulla fosse, semplicemente appaiono. Così poi accade che le vedo davvero: le vedo da dentro.

Scatto preso durante la festa nazionale del primo d'agosto 2017 a Silvaplana

Scatto preso durante la festa nazionale del primo d'agosto 2017 a Silvaplana