A un anno dal mio andare a vivere in Engadina

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Me lo ero ripromessa: il giorno che Facebook mi riproporrà l'immagine di Artù nella pozzanghera scriverò di come si sta a vivere in montagna, ed eccola apparire stamane nella mia timeline. Un anno. È passato un anno esatto da quando andai in Engadina a vedere ciò che oggi è diventato il mio atelier, la cui firma del contratto avrebbe significato cambiamento con la C maiuscola. Quando scattai questa foto era pomeriggio inoltrato e avevo la febbre a 38,5; sentivo non essere influenza, probabilmente si trattava solo di paura. Lo stavo facendo veramente? Sì, dovevo.

Cosa posso dire ora del mio vivere in Engadina? È tanta roba, ma tanta davvero: occorre imparare a viverci perché tutto risulta enfatizzato, e per tutto intendo anche se stessi. Si è costantemente immersi nell’ascolto di un fuori e di un dentro che alla fine non se ne riconoscono nemmeno più i confini. È come se ti venisse sparato nelle vene un liquido di realtà aumentata che all’inizio pensi di non riuscire a gestire ma poi, per fortuna, si inizia a comprendere e a trovare il giusto modo di sopportare. Sì, perché a volte è davvero un sopportare. Sembra assurdo da dire, ma solo qui ho potuto sentire il dolore che la bellezza può provocare, ed è davvero un male fisico, capace di spezzare anche se cosa bene non so. Sovente mi è capitato di ritrovarmi a piangere di commozione guardando nel cielo giochi di luce incredibili e pensare "basta, è troppo"; ora, a quasi un anno di distanza, son riuscita se non altro a sostituirlo con un semplice “grazie”, anche se male riesce a farlo ancora. 

C’è da considerare inoltre che non ho distrazioni, quindi posso davvero immergermi in stati di pensiero ampi, dove ciò che prima magari rimaneva incastrato fra stress, traffico e difese ora non trova più ostacoli ed è libero di salire a galla, qualunque cosa sia. Diciamo che passato l’entusiasmo iniziale la primavera è stata un po’ più difficile, mentre ora non so se riuscirei già più a tornare. Me ne accorgo quando scendo in Ticino: sono sufficienti un paio di giorni per sentire come lì sia necessario alzare le difese per non venir travolti. Non ho ancora capito se stare nella natura renda più vulnerabili o insofferenti verso certe realtà quindi sì, io sono una di quelle a cui potrete dire “facile fare i filosofi in mezzo al nulla” e avreste ragione; in città non ci riuscirei, o almeno non nella mia e non ora. D’altronde ho scelto quell’altopiano proprio per lo stato in cui è sempre riuscito a portarmi, condizione assolutamente necessaria per la strada che ho deciso di seguire.

Che poi io sia una persona estremamente fortunata ad essermi potuta permettere di sperimentare ciò non lo metterò mai in dubbio ma, visto che questa è la mia storia, cerco almeno di viverla appieno. C’è comunque ancora da aggiungere che lassù la solitudine è una costante, le condizioni meteorologiche possono essere impietose e la montagna deve assolutamente piacere, ma per fortuna conosco persone meravigliose con cui è possibile scambiarsi calore umano sia attraverso un tavolo che via web e, quando la fame di civiltà si fa sentire, in un attimo si può essere a Zurigo, Lugano o Milano. In pratica nell’anno appena trascorso non sono mai stata così felice e nel contempo non ho mai sofferto così tanto in vita mia ma, se proprio dovessi riassumere quest’esperienza in una parola non avrei dubbi e userei ossigeno, anche se in fin dei conti null’altro è se non quella cosa chiamata opportunità, o a volte anche semplicemente vita.