Ehi tu, cane, essere libero dalla gabbia della società ma non da quella in cui è racchiuso ognuno: la realtà. Istinto puro, fedele amico, ti muovi per il mondo corrodendoti come tutti noi a causa dell’atmosfera, che null’altro è se non il riflesso di un’esistenza fugace, laddove nella distanza tutto accade.
È un luogo privo di staticità, colmo di un fluire denso in cui respirare significa annegare senza morire, non subito almeno. A noi umani tocca assorbire coscientemente l’elemento che ci consuma, mentre tu semplicemente procedi annusando la fame, le botte e quella cagna in cui vorresti affondare il sesso, non certo questo nostro divenire ombra e infine punto, posto nell’addio.
A guardarti camminare così, cercando dove lasciare un segno, c’è da chiedersi quanto inseguire un significato sia utile anche solo per rallentare l’inevitabile sgretolamento. A te questo non importa, alzi la gamba, pisci e sei lì, per te e per i tuoi simili che arriveranno a breve, aggiungendo il loro esserci al tuo.
Forse le persone non sono altro che questo: angoli di muro, spigoli di immensità pronti a raccontare ai posteri ciò che è stato e che rimarrà, in una somma di presenze che nessuna pioggia è mai riuscita a cancellare.
Vieni cane, avvicinati io non ci riesco, le catene della mia stessa temporaneità mi impediscono di andare altrove.
Vieni cane, fatti accarezzare, fammi sentire quanto sia morbido non sapere, quanto sia soave aver per padrona l’eternità.
Testo ideato per un concorso legato a un’esposizione di Alberto Giacometti, in cui si chiedeva di scrivere un racconto legato a una qualsiasi scultura dell’artista.